L' Armata del Drago ~ Rpg by Forum

Altro mondo. Altre vite

« Older   Newer »
  Share  
Rashagal
view post Posted on 6/10/2007, 01:43




In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro

Un ultimo, nervoso click su una tastiera. C'era voluto del tempo ma finalmente l'odiosa recenzione ordinata dal caporedattore a un uomo, Kevin Marini, che di solito serviva a giornalismo di ben altro livello. C'era voluto del tempo, si, ma quel libro era ora recensito, quel fantasy da quattro soldi che stava facendo tanto scalpore con i suoi personaggi stravaganti e la sua trama ricavata unendo insieme cinque o sei libri scritti decenni prima da persone ben più abili e rimescolati insieme. Kevin diede l'ordine di stampa con soddisfazione evidente sul volto, solo nella redazione a tarda notte, rimasto li per finire un lavoro tanto irritante quanto necessario. L'abito sempre perfettamente in ordine persino dopo ore e ore di estenutante lavoro, la cravatta rimessa ossessivamente al suo preciso posto, allisciata da ogni possibile piega. Aveva quel giorno rifatto la tinta ai capelli neri come il carbone, riportandoli a quel bianco argentato che era l'unica stravaganza del suo modo di abbigliarsi. Uno strascico della sua giovinezza che non riusciva proprio a togliersi di dosso. Lentamente si alzò dalla sedia, afferrando la ventiquattr'ore e dirigendo verso l'ascensore che l'avrebbe portato alla sua auto e, in definitiva, a casa da sua moglie che probabilmente gia dormiva da ore, quando un lampo colse la sua mente indaffarata gia a immaginare la strada migliore da prendere per potersi muovere senza cambiar marcia a tavoletta sino al letto soffice che l'attendeva.

Svoltò a destra nel grosso corridoio che aveva appena imboccato, entrando nella stanza dei computer della redazione. Come aveva immaginato lui era ancora li.. Kevin afferrò dal taschino il suo paio di piccoli occhialini scuri, ponendoseli sul naso. Non importava che fosse notte o giorno, quegli occhialini, regalo di sua madre, l'avevano sempre accompagnato e l'avrebbero accompagnato sempre.

Oliver? Dannazione ti vuoi togliere quelle cuffie?!

Oliver, bassa statura, capelli lunghi castani e uno sguardo perennemente vaquo sul volto, si volse in direzione di Kevin come se si fosse accorto della sua esistenza solo in quel momento in tutta la sua vita. Con un gesto annoiato staccò le cuffie dal loro attacco, spegnendo contemporaneamente le casse del computer per non assordare il palazzo intero con l'altissima musica del suo ultimo videogame. Davanti a se aveva decine e decine di carte colorate appartenenti a chi sa quale nuovo gioco che aveva scoperto in quei giovani. Non si poteva dire che Oliver fosse una persona professionale, ma in campo informatico era assolutamente il migliore

Le informazioni. La roba che ti avevo chiesto di trovarmi. Hai fatto o devo aspettare ancora?

le ho quì Kevin, aspetta.. ecco

il basso ragazzo afferrò un CD che attendeva in una custodia blù mare alla sua destra, alzandosi in piedi per consegnarli nelle mani del giornalista. Tutte le informazioni di cui il governo era in possesso sull' ultimo, eclatante caso di droga sviluppatosi negli stati uniti si trovavano in quel momento nelle mani di Kevin.. qualcosa che fece tremare il suo corpo come solo sua moglie, ai tempi d'oro, era capace di fare

eppure Oliver, ovviamente, decise di mettere fine a quell' idillio dei sensi. Dalla tasca infatti aveva estratto qualcos'altro che inaspettatamente mise nel taschino riservato agli occhiali del giornalista, sorridendo per poi tornare a sedersi sulla sua poltroncina

quella è roba che scotta, ti servirà un portafortuna!

lo sbuffo di Kevin fu più chiaro di mille parole. Senza nemmeno controllare il reporter girò i tacchi, uscendo. La notte lo avvolse nelle sue spire mentre la sua auto sfrecciava

il giorno dopo iniziò storto

scusa Vincent, mi dispiace disturbarti ma hai parcheggiato nel mio posto auto.. vedi? Nel parcheggio ho io il turno questo mese e..

va a farti fottere Kevin, io parcheggio dove mi pare

per un istante Kevin Marini fù sul punto di esplodere, finendo poi come suo solito per scrivere biglietti indignati che avrebbe poi attaccato al finestrino dell' auto del colpevole. Per fortuna quel giorno decise di controllarsi, guidando bruscamente verso l'esterno alla ricerca di un posto auto. Un po d'aria, e un po di ritardo, gli avrebbero fatto bene pensò

Giulia, la sua segretaria, lo accolse oltre le porte automatiche dell' ascensore con una valanga di raccomandazioni e orari pronunciati con la sua voce spaventosamente squillante. Aveva assunto quella ragazza perchè era in grado di metterlo di buon umore persino nei momenti più neri, eppure quel giorno quell' acuto continuo non sembrva fare altro che peggiorare il mal di testa che gia rimbombava violentemente nel suo cervello. Pronunciò parole rapide, secche, sistemandosi la cravatta con un movimento automatico

oggi starò poco in redazione, ho qualcosa da fare. Prendi tutti i miei messaggi e appunta tutto quanto

considerò la serie di pigolii seguenti come un si e passò oltre, evitando la spallata che Vincent, l'enorme reporter evidentemente non contento di avergli rubato il posto auto, stava per rifilargli ma sbattendo violentemente contro la macchinetta del caffè. Qualcosa che la sua spalla decise di rinfacciargli per una buona decina di minuti, dolorante.
Tutto il lavoro burocratico venne archiviato rapidamente. Non aveva tempo da perdere in ufficio quel giorno.. passò, trenta minuti dopo essere entrato dalla porta, accanto alla piccola scrivania di Giulia, fermandosi e sorridendole così da farsi perdonare per l'atteggiamento brusco di poco prima. Perdono che, con uno sguardo, la ragazza gli concesse prontamente

scusa Giulia, se chiama quel debosciato di mio fratello vedi di avvertirlo che ho ritirato tutto ciò che era mio dal suo fondo per gli studi e informalo che pagherò personalmente le rette del campus, così la smetterà di usarli per roba da bere e puttane

rimase per un istante a guardare la ragazza arrossire per la parola "puttane" pronunciata davanti a lei, ricordandosi in quell' istante l'incredibile candore che la caratterizzava. Non c'era tempo per altre scuse. Avanzò a passo lungo in direzione dell' ascensore. Uno scoop l'aspettava. Qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre
Qualcosa che l'avrebbe reso qualcuno, per davvero

esattamente come aveva letto, esattamente come Oliver aveva scoperto il governo era a conoscenza della locazione della base operativa dei capi del progetto V. Un enorme magazzino nella periferia della città.. entrare la dentro da solo avrebbe significato mettere a rischio la propria vita, ma se Kevin fosse riuscito a mantenere la facciata abbastanza a lungo da ottenere qualche informazioni lo scoop sarebbe stato assicurato. Si mosse in direzione della guardia all' ingresso con decisione, stringendo la valigetta che portava nella mano destra con tutta la forza che aveva

sono il negoziatore disse, con tutta la sicurezza che il suo corpo gli concesse

entrare non era stato difficile. Accorso tre ore prima dell' arrivo previsto dalle agenzie governative del vero negoziatore della CIA avrebbe avuto parecchio tempo per farsi un idea della situazione. Corridoi tortuosi e infiniti vennero percorsi in silenzio da un Marini scortato da una guardia armata. Finalmente, dopo aver oltrepassato un camminamento che dava su una sottospecie di industria di fonderie, giunse verso l'obbiettivo della camminata. La porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo laciandolo in un ufficio di piccole dimensioni. Una scrivania azzurra ricoperta da scartoffie e appunti faceva da copertura all' alto uomo che attendeva dietro essa. L'occhio, l'unico occhio, rosso puntato in direzione del giornalsita come a valutarlo, squadrarlo

lei deve essere il negoziatore

si, sono incari.. Kevin fece per sedersi, osservando con attenzione il lungo coltello in stile giapponese posizionato sul suo lato della scrivania. Evidentemente un oggetto decorativo.

Freni la lingua, impostore. Crede di avere a che fare con uno sciocco? Avevo richiesto di incontrare il vostro capo.. un uomo sui sessantacinque anni se non sbaglio. Tu hai sessantacinque anni?

non ci fù tempo per rispondere, ne per incolpare se stessi di aver letto in modo incompleto le informazioni.. due uomini entrarono dalla porta, brandendo pistole che avrebbero fatto saltare le cervella a Kevin con una sola pressione del grilletto.. il reporter, d'istinto, afferrò il coltello che aveva davanti, puntandolo alla gola del suo interlocutore

interlocutore che lo guardò a lungo, sorridendo

non hai le palle disse semplicemente afferrando la lama e strappandogliela di mano. Era vero, aveva dannatamente ragione

il resto fù facile, scontato, evidente. Kevin venne afferrato dai due uomini e trascinato via, non prima di riuscire a leggere qualche parola sconnessa dai fogli sparsi sulla scrivania. "Progetto Valaukar" "tossine immesse nel sangue del soggetto.." "il controllo è arrivato alle aree di secrezione ormonale.." frasi che normalmente avrebbe potuto ricollegare, rimettere insieme.. ma che in quel momento suonavano lontane, prive di senso. Venne sbattuto in una cella vicina alle fonderie, calda come un forno. Lasciato li con la notizia che il giorno dopo sarebbe stato interrogato e ammazzato

le lacrime sostituirono l'ansimare continuo delle macchine da fonderia. La posizione fetale protesse Kevin dal calore delle pareti

in un gesto casuale, automatico, il reporter portò la mano al taschino scoprendo di aver lasciato gli occhialini scuri sulla scrivania dell' uomo che l'aveva accolto.. maledisse se stesso afferrando l'unica altra cosa che attendeva le sue dita nella tasca. Ne estrasse una carta di colore rosso, raffigurante un drago francamente disegnato male, parecchio male. "Drago Divoramondo" lesse con attenzione, riuscendo a malapena a finire la parola prima di scoppiare nuovamente a piangere. Non avrebbe mai imparato a giocare a quello stupido gioco di carte. Niente che gli importasse in realtà, niente che lo toccasse davvero, ma il puro e semplice capire di non poter più fare quella semplice cosa l'aveva messo davanti, come un masso rotolante e inarrestabile, all' enormità del concetto della morte

il giorno seguente arrivò lento, trascinandosi tra i pochi minuti di finto sonno vissuti in quella scomoda cella

Kevin, in completo disordine, i capelli arruffati e la cravatta mezza strappata, venne portato sotto braccio da due rudi soldati sino all' ufficio in cui ventiquattro ore prima aveva gettato così stupidamente via la sua vita. Cadde a terra, subendo immediatamente un calcio da parte di uno dei due che l'avevano portato li.. l'uomo, colui che l'aveva imprigionato, era li dietro alla sua scrivania.. voltato di spalle verso un computer attaccato a una mensola sul muro, intento a scrivere chi sa quale rapporto

immagino tu non sia un qualche agente, ne una spia di qualche dannata organizzazione esterna alla nostra. Chi sei? Dillo e ti lascio andare

il.. il mio nome è Kevin.. Kevin Marini.. sono solo un giornalista cristo santo, lasciatemi andare, vi prego! le parole uscivano come singhiozzi, misti ad altri rumori di pianto che rischivano di sembrare parole

bene. Non importerà a nessuno se muori allora. Ammazzate questo stronzo emise la condanna a morte e non si voltò nemmeno a vedere il viso di colui che aveva appena ucciso

i calci si ripetevano, costanti e violenti, mentre l'altro soldato afferrava saldamente un manganello portato alla cintola. L'avrebbero picchiato a morte, massacrandolo nel modo più brutale possibile. Venne trascinato fuori per il colletto della giacca, risparmiando al pavimento dell' ufficio la visione delle sue cervella

Valaukar, il capo del progetto che prendeva da lui stesso nome, compilò gli ultimi dati riguardanti la vendita di diecimila litri di "elemento V", il suo piccolo siero per la dominazione mentale, al governo americano. Era vero che si trattava di un commercio sotterraneo, che doveva rimanere segreto.. ma rimaneva comunque buona pratica documentare il tutto, in modo che se qualcuno avesse cercato di tradirlo lui avrebbe avuto i mezzi per far affondare tutti quanti con lui. I colpi violenti dei suoi uomini, da fuori dalla porta, risuonavano soddisfatti tra le mura ferree del magazzino. Un buon inizio di giornata, poco ma sicuro

quando la porta si aprì Valaukar si voltò sorridendo, osservando sbigottito l'uomo dai capelli bianco argentei appena entrato dalla porta. In mano stringeva un manganello impiastrato di cervella umane miste a sangue, sul corpo era ricoperto di lividi.. ma la differenza, quella vera, era negli occhi, nel viso.. un ghigno spaventoso aveva sostituito lo sguardo terrorizzato, un lampo assassino, inumano attraversava quegli occhi prima preda del panico

non hai le palle, pezzo di merda disse con calma l'uomo. Addestrato dall' esercito americano sin da bambino, armato in quel momento di coltello a serramanico appena estratto dalla fondina sulla gamba. Anche un bambino avrebbe saputo su chi scommettere in quel confronto

e anche un bambino avrebbe sbagliato, vedendo il manganello saettare in avanti e impattare sulla mano armata dell' uomo, facendogli lasciare il coltello con violenza inaudita mentre la mano sinistra del reporter spingeva il suo viso contro il muro alle sue spalle, preda di una forza mai conosciuta

chiamami ecatombe, figlio di puttana



il processo si era concluso da qualche mese. Kevin era stato scagionato dalle accuse di vari omicidi compiuti la notte di un anno prima poichè mosso da motivi di "legittima difesa". Le informazioni che aveva ottenuto quella notte avevano gia fatto il giro del mondo, passando di casa in casa, di televisore in televisore.. Kevin Marini era, in tutto e per tutto, diventato un eroe nazionale. Detestato dalla nazione stessa a cui aveva pesantemente pestato i piedi

tutto era tornato alla normalità. Ogni giorno Kevin tornava al lavoro, ogni giorno mangiava con sua moglie, ogni giorno litigava con qualche collega

eppure, da quei giorni, tutti furono in grado di leggere qualcosa di strano in lui. Qualcosa che non avevano mai sentito prima.. l'ombra di qualcosa di inumano nascosto sotto il sorriso di un uomo dall'indole tranquilla e sedentaria

In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro
 
Top
Monsone Cremisi
view post Posted on 6/10/2007, 12:25




In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro


Il mondo sembrava dorato, in quel momento. Tutto era perfetto, coperto da una patina d’ amore e felicità; senza imperfezioni. Una casa bellissima, un auto da sballo totale, una moglie ancor più amorevole e disponibile in ogni momento del giorno e della notte. Un mondo da sogno.
Infatti.
La sveglia, se davvero sveglia poteva chiamarsi quell’ orologio dalle lancette sgangherate e il tono stridulo quanto una cornacchia acquistato a $3.99 nell’ Emporio vicino casa, riportò Nathaniel Hammond alla cruda realtà. Dannazione. Il ragazzo si ritrovò ancora una volta, una mattina in più, immerso nei toni lugubri che caratterizzavano la cantina interrata di casa dell’ amico von Nishe: il tipo, un olandese dai capelli platinati e la mania per le lampade che gli rendevano la pelle color “biscotto”, l’ aveva conosciuto sempre in quel famoso Emporio, lo stesso della stramaledetta sveglia. Strano, quel buco sozzo e marcio sembrava il punto nevralgico della vita del povero Nats. Ma questo sarà ampiamente trattato in seguito. Si rivoltò qualche volta nel materasso sgangherato che impiegava come letto: quella mattina –era mattina(?)- s’ era risvegliato con la solita, devastante emicrania. Probabilmente era colpa dei bagordi della sera prima, tutto per festeggiare la vittoria. Oppure a causa delle tumefazioni che il ragazzo s’ era procurato per arrivarci, alla vittoria. Rimase ancora qualche istante supino, nudo e con la pelle solcata dalle leggere correnti d’ aria che penetravano dagli spifferi disseminati un po’ ovunque nel largo camerone sotterraneo; fissò gli occhi scuri su un punto a caso, fra quella macchia d’ umido li nell’ angolo e il ragno che blando si calava sulla sua ragnatela per gustare il proprio pasto a base di mosca morta.
Pensò quanto quella vita lo stesse disfacendo, quanto frivolo e senza futuro fosse il modo che aveva trovato per guadagnarsi da mangiare; rifletté seriamente sull’ acquistare una vaschetta di polvere per stucco e coprire quei cazzo di spifferi, aveva la pelle d’ oca.
Balzò a sedere improvvisamente, ingurgitando qualcuno degli antidolorifici sparsi sul comodino ormai preda di una imprecisata e vorace specie di tarme. Diluì il tutto con una buona dose di vodka, rimanendo una volta di più solo ed immerso nella penombra lievemente squarciata dalla fessura in cima alla parte che l’ olandese osava chiamare finestra. Solo l’ amaro in bocca e lo sguardo ancora perso nel vuoto; gli antidolorifici, almeno, stavano rapidamente sortendo il loro effetto.
Si alzò solamente quando il fastidio fu completamente passato, legando la chioma rossa con un piccolo elastico e lavandosi nella minuscola nicchietta impiegata a guisa di bagno.
Si vestì dei soliti jeans e maglietta scura, lasciando per quel giorno i capelli color del fuoco imbrigliati nell’ improvvisato legaccio. Era ora di tornare in superficie, uno strazio.

Salì gli scalini due per volta: amava il brivido procuratogli dal pericoloso scricchiolio generato dallo stivale sulla loro superficie; la comunità di tarme che aveva iniziato a cibarsi del suo comodino probabilmente già aveva abbondantemente banchettato con le travi reggenti la scala, forse anche quelle che tenevano insieme il soffitto. Antitarme e stucco, segnati.
Sbucò nella cucina di Musteval, o almeno così aveva detto di chiamarsi l’ amico proveniente dai Paesi Bassi e dal nome quasi impronunciabile; l’ aveva conosciuto una notte, semplicemente non se n’ era mai più andato via. Il vano, sfruttato sia come piano per la cottura che come sala da pranzo, era letteralmente invaso da pentole incrostate sparse un po’ ovunque, rimasugli di cibo e disordine estremo. Riuscì a malapena ad arrivare al tavolo posto al centro senza inciampare un paio di volte rischiando di cadere.

«Ehi Must, mettere un po’ d’ ordine qui dentro è fuori discussione?»
«Buongiorno anche a te caro, darmi una mano con l’ affitto, invece?»
«Sto provvedendo, abbi un po’ di pazienza»
«Certo, certo.»
Il sorriso gioviale del ragazzo dai capelli albini si infranse contro Nats con una potenza devastante: anche senza volerlo, riusciva a farlo irrimediabilmente sentire un escremento. Aveva un aria pacata, tranquilla, sembrava in pace col mondo; probabilmente, l’ ingente quantità d’ erba e stupefacenti vari che consumava gli avevano infine bruciato quasi tutte le sinapsi. A volte, ma non ci avrebbe giurato, aveva potuto ascoltare dei suoi soliloqui: sembrava inveire pesantemente contro un tipo che non aveva mai incontrato in giro per casa, frutto della sua immaginazione probabilmente. Un certo Caine, gli era sembrato di recepire durante una delle urlanti scenette serali.
Anche adesso, il ragazzo si apprestava a consumare una dose di polvere biancastra, dalla provenienza non meglio specificata.

«Vedi di non lasciarci le penne»
«Tieni così tanto a me?»
«Non vorrei essere cacciato da qui e magari andare a finire in gattabuia»
«Non avrò un overdose, tranquillo»
«Ne sei sicuro? E se fosse tagliata male?»
Il padrone di casa si gettò col naso sulla superficie liscia del tavolo, aspirando in un sol colpo la striscia bianca lunga svariati centimetri. Probabilmente anche quella sera avrebbe litigato con Caine; poco male. Rialzò il capo, con le narici rosse e pulsanti, il labbro inferiore leggermente impiastricciato dalla coca.
«Visto? Sto benissimo?»
«Certo, si vede dagli occhi»
«Nikolas ti cerca»
«Quando avresti avuto intenzione di dirmelo?»
«Buona giornata Nats»

Uscì in strada, percorse pochi metri sotto la pioggia battente di quella plumbea giornata, giusto il tempo di farsi la seconda doccia nel giro di un’ ora. Svoltò l’ angolo e l’ insegna al neon lo colpì come un pugno in un occhio; quello rimasto sano. Citava “l’ Emporio”.
Posto strano, quello: un tugurio di pochi metri quadrati, lo stretto necessario a farci stare due espositori di merce varia; un bancone e la cassa sotto la quale il proprietario custodiva gelosamente un fucile antisommossa a doppia canna mozza e la botola necessaria a scendere nel seminterrato gigantesco. Entrò senza ascoltare lo scampanellio generato dall’ acchiappasogni posto sopra lo stipite della porta, aggirandosi come di consueto fra gli espositori prima di avvicinarsi al proprietario sempre asserragliato dietro il suo bancone; quel giorno stringeva fra le braccia una bestia strana, forse una lucertola troppo cresciuta o un’ iguana, mentre una radio svalvolata trasmetteva su una frequenza irritantemente disturbata le note distorte di “Shine on you”; atmosfera surreale, indubbiamente. Ne aveva ogni giorno uno nuovo, di animale. Era sicuro di aver visto un cobra bianco, tempo prima. Poco male.

«Ehi Nick, Musteval ha detto che mi cercavi»
«Il Drogato se n’è ricordato, alla fine»
«Si beh, era abbastanza “impegnato”»
«Sono io ad “impegnarlo”, digli che mi deve ancora $42.75 dall’ ultima consegna»
«Sarà fatto, tranquillo. Hai dello stucco?»
«Credo di si. Stasera sei impegnato»
«Quattro volte in una settimana. Hai deciso di arricchirmi?»
«Sembri piacere alla gente, testa di cazzo»
«Quando?»
«Chiudi il negozio, per favore. Ti aspetto giù»

Pensò che Nikolas avesse chiesto all’ europeo di avvisarlo già molto tempo prima, ma i fumi della droga avevano evidentemente rimosso l’ avviso dalla mente fragile dello schizofrenico. Poco male, non aveva bisogno di tutto questo preavviso per intraprendere ciò che s’ apprestava a fare.
Si mosse velocemente verso l’ uscita del negozio, applicando qualche mandata alla chiave per bloccare la serratura, rivoltando poi il cartellino affisso al vetro antisommossa del negozio sul lato “Closed”. Si girò di nuovo verso il bancone, notando la figura del negoziante sparire sotto di esso come inghiottita: raggiunse rapido l’ uomo, prima di immergersi completamente nel mondo che gli apparteneva, ancora un seminterrato. Ironia del destino.

Belane, così credeva si chiamasse il gestore dell’ Emporio, gestiva segretamente una bisca nell’ ampio spazio ricavato direttamente sotto il terreno di sua proprietà: non era quindi esattamente un grande amante degli animali, semplicemente ne possedeva a centinaia per il semplice fatto che, anche con poco preavviso, riusciva ad organizzare incontri fra bestie di ogni genere. Che si trattasse di corsa o lotta era davvero poco importante, lui organizzava l’ evento. L’ importante era che i pochi associati di quell’ esclusivo club fossero sempre soddisfatti del servizio reso: un cliente soddisfatto torna sempre, chi torna spende ancora. Se loro perdevano, lui incassava. Il tutto corredato da litri di spumante e vini pregiati, vizi e donne. Alcolici, droghe, adescatrici d’ alto borgo, gioco d’ azzardo e quant’ altro.
L’ uomo, si sa, è la più plasmabile delle bestie. Quella notte si scommetteva su carne umana: quella già pesta ma scattante del povero Nathaniel, la più fresca e non ancora “battezzata” di un altro tipo del quale non aveva ancora scoperto il nome. Non aveva una grande importanza, si scagliò nell’ arena senza pensarci due volte: dal soppalco ricavato a mezz’ aria un roboante ululato si levò all’ entrata del Rosso nel campo di battaglia; Torque, lo chiamavano. Sembrava il re decaduto di quel posto marcio, e non c’ era sicuramente da andarne fieri. Rimaneva, per lui, semplicemente un modo per guadagnarsi da vivere: non aveva ricevuto educazione, aveva visto merda ad ogni angolo delle strade e spesso ci era finito col muso spiaccicato, negli escrementi. Aveva patito la fame e rubato cibo. Pestato chi aveva tentato di rubarglielo a sua volta, pestato coloro ai quali l’ aveva rubato.
La in mezzo però, su quello spiazzo circolare di sabbia mista a terra battuta e adorato dai suoi sudditi urlanti, era Re. Unico e solo. Attese ancora, con il capo cullato dal sibilo costante dell’ aria rinfrescata dai ventilatori attorno a sé, che qualcosa accadesse.

«Stasera un evento speciale!»
Nikolas guadagnò il centro dell’ arena, stringendo nel pugno il microfono collegato ai diffusori sparsi un po’ ovunque nell’ ambiente impestato dal sentore di stantio. Gesticolando vistosamente con la mano mancina.
«Il campione, colui il quale adorate e bramate..ti vedo Eve, ti vedo..Nathainel Hammond. Torque, il Monsone Cremisi!»
Ancora urla, condite d’ applausi. Il suo regno decadente che acclamava a gran voce il suo nome.
«Verrà stasera sfidato da qualcuno con la ferma intenzione di attentare al suo titolo. Dal lontano Kansas, lo Squartabuoi: Caine Westrndrop!»

Caine? Che la Dea se li porti tutti quanti, possibile che esistesse davvero? Non riusciva a spiegarselo, non riusciva a convincersi del fatto che –nonostante vivesse in quella casa da tempo- non aveva mai incrociato un armadio ambulante di quelle dimensioni. Era pantagruelico: lui non spiccava di certo per altezza, ma forse perfino un giocatore di pallacanestro avrebbe sfigurato vicino a quella cosa; approssimativamente, aveva stimato un’ altezza di duecentocinquanta centimetri. Forse qualcuno in più. Era largo, gigantesco nel vero senso della parola, i muscoli perfettamente simmetrici aldilà e aldiquà dell’ asse di simmetria del corpo: ipertrofici e madidi di sudore. Un suo bicipite era grosso quanto la sua testa, probabilmente finirci in mezzo l’ avrebbe portato verso una fine certa. Tutto era immenso, in quel golem di carne, eccezion fatta per il capo: le dimensioni della testa non si adeguavano correttamente al resto del corpo; poco più piccole del normale, erano impreziosite da una folta chioma mossa e castana. Il taglio delle spesse basette portava le punte delle stesse ai lati delle labbra, in un tripudio di peluria canuta ma inquietantemente folta. Lo sguardo perennemente corrugato in un ghigno inumano, gli occhi azzurri fissi sul bersaglio direttamente sotto di lui, la bocca distorta che faceva bella mostra di una fila di denti perfetti ed affilati come zanne; una bestia mannara, di sicuro. Non credeva, il giovane, a simili fandonie. Quella cosa però sembrava certificare inequivocabilmente l’ esistenza dei cosiddetti licantropi.
Senza preavviso alcuno, il gigante peloso gli si scagliò addosso: iniziava lo scontro.
Santissima grazia, quella cosa sembrava una saetta. Ringraziò il cielo i riflessi che la natura gli aveva donato, scartando di lato mentre le braccia si abbattevano proprio dove il suo corpo stazionava pochi istanti prima: rotolò nella polvere, rialzandosi rapidamente per andare ad infrangere il calcio potente contro il ginocchio del nemico. Assurdamente, questo rimase completamente piantato dove si trovava, sembrava non sentire dolore alcuno, saldo nella posizione. La mano volò come un maglio in caduta libera verso il viso di Torque, prevedibile l’ epilogo: accompagnò il movimento della mascella col corpo intero, nell’ intento di non slogarsela, vedendosi poi proiettato pochi metri più avanti. Rovinò a terra senza potersi opporre, il taglio sanguinante sullo zigomo iniziò ad alterarlo vistosamente.
Il bue tornò alla carica, poco prima che Nathaniel riuscisse ad rialzarsi completamente, costringendolo quindi ad una manovra di ripiego: non si mosse, attendendo l’ arrivo della bestia in carica. Gli fu sopra, lo coprì col corpo intero per qualche secondo, e così rimasero sotto gli occhi di tutti. Un attimo, più istanti, tre, cinque secondi.
Caine si scosse, barcollando lievemente all’ indietro, mentre la figura di Torque tornava man mano in vista: il braccio teso, conficcato nella bocca dello stomaco dell’ animale. Questi rise, lievemente eccitato dall’ ardita manovra sortita del piccoletto, chiudendo le spire delle braccia possenti attorno a lui e tirando lo verso l’ alto. Si preparava a stritolarlo.

«Quel bastardo è tutta scena, Nats. Sfondalo, fammi contento..Sfondalo!»

Credette di sentire la voce dell’ olandese in mezzo allo scalpitare del pubblico, convincendosi che effettivamente la persona con la quale sembrava ragionare e litigare ogni notte esistesse davvero. Caine. Si contorse per il dolore, la cassa toracica sembrava stesse per implodere da un momento all’ altro. Due costole erano di sicuro già incrinate, l’ avevo valutato dopo i primi due respiri; il dolore era lancinante: in quel momento il pazzo si ricordò d’ aver terminato gli antidolorifici. Questo è quello che sovviene poco prima di schiattare? Stucco, antitarme e antidolorifici.
Lo zigomo non smetteva di sanguinare, smise di respirare per mantenere una parvenza di lucidità e non contorcersi per il dolore; all’ improvviso la fronte ricoperta di graffi e sabbia si proiettò in avanti, ad occhi chiusi e con tutta la forza rimastagli in corpo.
Nero.

Quando riaprì gli occhi, si accorse di aver perso quota: era effettivamente a terra, inginocchiato sul corpo del bestione con le mani piantate sulle spalle colossali per reggersi. Aveva valutato bene la situazione: il cranio del tipo aveva retto all’ impatto come un muro di carta. Era aperto in fronte, il naso sfondato e ridotto in poltiglia, alcuni denti mancanti; quella testolina aveva attratto il Monsone fin dall’ inizio, desiderava saggiarne la consistenza. Una volta in più l’ aveva avuta vinta.
Nikolas li trovava sempre più cocciuti, indubbiamente: si rialzò proprio mentre quest ultimo decretava la sua vittoria, gioioso per tutti gli incassi che avrebbe recepito a fine serata.
Si tenne il fianco, abbandonando il suo Regno mentre la folla smaniava festante. Tornò in superficie, dove vicino alla cassa rinforzata lo attendeva la solita busta di carta beige: antitarme, antidolorifici e il suo compenso. Lo stucco, evidentemente, era terminato.
Uscì dal retro, come un reietto che si allontana dal suo amato paese. Fuori pioveva.

Terminata un' altra giornata prim' ancora che arrivasse la notte: ancora solo, con una manciata di pastiglie a soffocare il dolore delle costole malridotte.
Perché lo facesse non è dato di sperlo.

In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro




SPOILER (click to view)
Non ho riletto, perdonate eventuali errori. X°D


Edited by Monsone Cremisi - 6/10/2007, 14:07
 
Top
Maldred
view post Posted on 7/10/2007, 13:28




Anche se filtravano grida allegre dalle pareti color crema tappezzate di disegni infantili, ugualmente si sentiva oppressa come se fosse centinaia di metri sottoterra, anziché a dieci metri dal giardino dell'orfanotrofio.
Mentre sistemava i fogli, si sforzava di sembrare il più allegra possibile di fronte alla bambina chinata in silenzio a scribacchiare qualcosa con i pastelli. Aveva sperato che fosse stata lei ad iniziare la conversazione, invece dal momento in cui era entrata nell'aula vuota non aveva smesso un attimo di passare sul foglio ruvido un pastello di un rosso acceso, con i lunghissimi capelli incolti talmente lunghi da celare quasi completamente sia il viso chino sul foglio che il disegno stesso, mentre l'altra manina non impegnata nell'atto di disegnare era posta ad ulteriore difesa dei tracciati della matita colorata, impedendo di fatto qualsivoglia tentativo di sbirciare ciò che la bimba stava disegnando.

Era stata una speranza vana, ma d'altronde non si aspettava di meglio da quella bambina. Esercitava la sua professione di assistente sociale da due anni appena, ed era di fatto fresca di tirocinio, ma aveva sul serio l'impressione che quella bambina, anche negli anni avvenire, sarebbe stata il caso più serio mai riscontrato. Strapparle una frase di senso compiuto in pubblico era di per se un'impresa titanica, ma da sole a volte si lasciava andare, anche se l'ultima volta quando si era accorta del registratore l'aveva gettato contro il muro, in un gesto di rabbia.
Non capiva, ma forse c'era davvero poco da capire. I suoi genitori l'avevano chiamata "Kyrie", che in latino significa "mio signore", ma chiamarla in quel modo equivale il più delle volte a scatenare una reazione violenta, con l'inevitabile epilogo consistente in una dose di calmante ed una dormita almeno di dodici ore, al termine della quale lei si sarebbe svegliata come sempre, tranquilla e taciturna, priva della benché minima voglia di vivere.

Le faceva pena. Per questo aveva accettato... però ogni giovedì, quando andava a trovarla, si domandava cosa avrebbe mai potuto fare per quel piccolo angelo dalle ali spezzate, priva di parenti e dell'affetto così necessario per una bambina di otto anni.
Sospirò e depose le carte sul tavolo. Prese la penna e ticchettò per un po' sul tavolo, nella speranza di richiamare la sua attenzione, ottenendo come unica risposta il rumore del pastello sul foglio.


« Che stai disegnando, di bello...? »

Le sorrise come sempre, ma la bimba non alzò lo sguardo.
Ritentò, sempre con tono allegro, desiderando ardentemente una risposta. Non usò nessuna delle procedure che di solito sono richieste in casi come quello, si limitò invece ad un tono quasi materno. Ormai sapeva che solo quello faceva breccia nel muro che la bambina si era costruita attorno:

« Non ti va di mostrarmelo...? Mmmh... dimmi... ti va di fare ancora il gioco dei nomi?
Allora, come l'altra volta: io sono Shono, e tu, invece...? Come ti chiami? »


Silenzio. La matita si era fermata.
La donna guardo la bimba intensamente, sperando in una risposta.

« ... »
« Non ti va...? Di solito ti piace questo gioco. »
« Mmmh... »

Un mugolio era sempre meglio di niente. Specialmente in questo caso. Un mugolio non è un silenzio pesante, e due occhi di due colori diversi che fanno capolino da sotto una frangietta troppo lunga sono il massimo che si possa desiderare da lei.
Shono prese fiducia, sentiva che quel giorno sarebbe andata meglio delle altre volte. Andava avanti a piccoli passi, ma migliorava.

« E' vero che sei andata sul tetto, domenica? »

La bimba si muove, prende il disegno e lo ripiega con calma. Fatto questo, lo pone sotto i gomiti che poggia sulla superficie liscia del tavolo, si liscia un po' i capelli ricordando alla giovane assistente sociale una gattina randagia. Non fosse però per quegli occhi di colore diverso così spenti...

« Si. »


Le venne da ridere quando improvvisamente la vocina della bimba le uscì dalle labbra, non si fece attendere e proseguì quella conversazione.

« Ah, e come mai...? Gli altri bimbi erano al cinema, no...? Non ti piaceva il film? »
« Mmmh. Nnno. »


Stavolta le rispose subito, e per Shono fu come se gli angeli in cielo avessero suonato una musica dolce ed armoniosa.

« Come mai...? Davano "la sirenetta", di solito sono i maschietti a cercare di scappare... »
(e dio solo sa come hai fatto tu a riuscirci dato che c'è una sola porta) « ... era brutto? O magari, ti ha fatto venire voglia di cantare... perché è questo che hai fatto sul tetto, no? »

La bimba fece uno scatto all'indietro, pose le mani una sopra l'altra sul bordo del tavolo e poi vi affondò la testa, che subito venne quasi nascosta dai capelli argentati.
Passarono alcuni istanti di silenzio durante i quali Shono si chiese se la bimba l'avesse capita. A volte impiegava minuti per rispondere a frasi complesse.

« Kayla aveva voglia di cantare. Kayla ha sempre voglia di cantare. »


Il tono era quasi irritato, e questo le parve un po' strano, ma ciò che le parve più importante fu il nome. Eccolo, il gioco dei nomi. Ogni volta che andava a trovarla cambiava nome. Doveva trattarsi di un disturbo legato alla morte dei genitori, oppure un trauma di cui non riusciva a trovare il motivo. Sperava di riuscire a capirlo, un giorno, e magari sperava anche che la bimba lo superasse... ma fino ad allora, continuava a presentarsi con un nome diverso, in quello che Shono aveva battezzato "il gioco dei nomi".
Forse valeva la pena chiederglielo di nuovo.

« Riproviamo? Facciamo il gioco dei nomi...?
Io sono Shono. E tu, invece...? Come ti chiami? »


Ripeté quel ritornello come una filastrocca imparata a memoria.
La bimba rispose subito, decisa, e -incredibile- sorrise mentre disse il suo nome.

« Riful. »

Shono le sorrise di rimando osservando quell'enigmatico arco dipingere le labbra sottili della bambina. Riful. Non è un nome... è più una massa di lettere messa insieme a casaccio. D'altronde è una bambina, non può conoscere un nome per ogni giorno, forse ultimamente li stava inventando da sola, per quanto Shono si era seriamente spaventata la settimana prima quando spaccandole il registratore aveva urlato il suo nome: "Ariel", proprio come la protagonista del cartone animato che la bambina avrebbe visto al piccolo cinema improvvisato dalle infermiere.

« Bene, Riful. Allora... Come mai ti era venuta voglia di cantare? »

Si ritrovò a fissare quegli occhi bicolore. Rabbrividì senza un motivo valido chiedendosi il perché. La risposta le fece paura. Non sapeva perché, ma ebbe sul serio paura di quella bimba:

« Nel pomeriggio, Giada si è picchiata con un bambino. Odiamo i giocattoli con cui stava giocando. Gli odiamo tutti, e avevamo detto che se non li avesse gettati subito ce l'avrebbe pagata.
Lui invece continuava a giocarci come se niente fosse... allora Giada l'ha picchiato ed ha spaccato quei giocattoli nel parco, con una pietra. Kayla era dispiaciuta. Kayla è l'unica a cui quei giocattoli non fanno schifo... allora voleva cantare per chiedere perdono al bambino, perché dopo che Giada aveva restituito i pezzi rotti, si era messo a piangere. »


Le fece paura. Le fece tanta paura. L'atmosfera era cupa, come se fuori i bambini avessero smesso di urlare ed avesse cominciato a piovere, invece splendeva il sole e dopo un po' le grida allegre tornarono a farsi sentire.
Le venne spontanea una domanda:

« Perché... hai rotto i giocattoli a quel bambino? Che giocattoli sono...? »

« ...

Sono i pupazzi dei cavalieri dello zodiaco.
Non mi piacciono. Sono ipocriti, e stupidi. Per questo li ho rotti tutti. »



 
Top
view post Posted on 8/10/2007, 16:12
Avatar

ЩД


~

Group:
Member
Posts:
6,154
Location:
Dalle tue spalle...

Status:


SPOILER (click to view)
Inquietante, il post di Maldred... :sisi:


In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro...


-Merda!- imprecò Alberto, stoppando bruscamente la corsa lungo i tetti.
Dannazione! Vicolo cieco! Di lì, l'unico posto dove sarebbe potuto andare era l'inferno.

Abbassò la testa, ansimando fortemente. "Pensa! Pensa! PENSA! Non hai sprecato ogni anno della tua vita rubando per buttarli via così! Ci DEVE essere una via di uscita, trovala!"

Quel giorno, nulla era andato per il verso giusto. Sarebbe dovuto essere un lavoretto semplice, dannazione! Un grattacielo, migliaia di telecamere e sensori ad infrarossi, laser nella griglia di aerazione... e un dipendente che aveva manipolato il sistema di sicurezza per godersela con l'amante a lavoro. Facile, in teoria: ti inserisci nel sistema dalla backdoor, reindirizzi ogni comando, registri un filmato di un minuto per ogni telecamera e lo visualizzi sui monitor a ciclo continuo, alzi il livello di guardia dei sensori ad infrarossi fino a duecento gradi Celsius, prendi un parapendio, voli sino al tetto, ti togli lo zaino, disattivi i laser da un portatile e penetri nella griglia di aerazione, arrivando fino all'ufficio nell'attico, prendi il CD-ROM e scappi, stessa via.

Ma no, invece: ad aspettarlo, lui. Altro che facoltà paranormali, come dicevano i suoi colleghi: Elessedil (che strano cognome, poi) aveva semplicemente un'intelligenza senza pari.

«I sensori ad infrarossi non funzionano» gli aveva detto, puntandogli contro il fucile e i suoi occhi penetranti non appena fu sceso.

-Manutenzione scarsina, eh?-

L'ostilità dell'alto uomo lo colpì. I suoi occhi, così strani, profondi, non avevano avuto nessun guizzo di rabbia; eppure Alberto comprese in quell'istante che stava per premere il grilletto. Si gettò di lato, colpito solo di striscio, per buttarsi fuori dalla porta e scivolare sull'anca sotto una guardia grande come un armadio. Si raddrizzò in fretta e corse via, iniziando una gincana fra guardie e congegni elettronici. Se Alberto non avesse avuto il suo portatile con l'accesso completo ai servizi di sicurezza del bianco grattacielo, chiamato ironicamente Torre d'Avorio, sarebbe morto dopo un minuto.

Ed invece, era lì. Sul tetto della Torre d'Avorio, con lo zaino che conteneva il secondo parapendio chissà dove e nessun tetto a portata di salto.

«Eccolo!»

Nemmeno si voltò: riprese a correre. Di lato, schivando la granucola di colpi che tempestò il parapetto, utilizzando gli altri, innumerevoli accessi al tetto come riparo. Schizzò via non appena fu di lato al ripostiglio per il quale era uscito lui ed erano uscite le guardie. Corse, corse e corse, lasciandisi dietro una scia di fori di proiettile.

E, svoltato un angolo, vide una guardia con lo zaino del parapendio in mano, assai perplessa.

«Fermalo!» gli gridò Elessedil.

La guardia, attirata dall'intempestivo grido del magnate dell'informatica, si voltò, lo vide e buttò lo zaino giù, di sotto. Alberto lo oltrepassò senza una parola e saltò il parapetto.

Vide, quasi come in un sogno, Mr. Elessedil fermo sul parapetto mentre lui raggiungeva in volo (caduta libera?) lo zaino e se lo infilava in aria, per poi spiegare le sue ali di tela e planare via, esultante. E vide, quasi come in un sogno, il missile termico che gli aveva sparato contro non appena la guardia con l'equipaggiamento pesante era arrivata.

Aveva diretto in fretta il parapendio verso un grattacielo vicino, imprecando contro la lentezza del suo mezzo e la velocità del missile, per poi sganciarsi dalle sue ali e aggrapparsi disperatamente al cornicione con le punta delle dita. Il missile si ingrippò col parapendio, per fortuna, esplodendo in aria.

Si rizzò su, ansimando e tenendosi la spalla sinistra, quasi sicuramente rotta nell'urto, e sventolando allegramente la torcia all'indirizzo della Torre d'Avorio. Un proiettile gli saettò vicino, indicandogli che non era ancora giunto in salvo, e Alberto entrò come un pazzo nell'appartamento al cui terrazzino si era aggrappato, per fortuna vuoto.

Il palmare bippò debolmente. Alberto lo prese, leggendo.

<filedset>Ci rivedremo.

E. Elessedil



-Come no!- sbuffò il ladro malconcio, uscendo dall'appartamentocon uno sbuffo divertito.
Ancora non sapeva quanto avesse ragione Elessedil...

-Incredibile...- mormorò Mark.
-Che cosa?- chiese il suo capo, il Supervisore della sicurezza della Torre d'Avorio.
-Vieni a vedere!- gli rispose di rimando Mark.
La corpulenta figura del Supervisore si avvicinò alla scrivania. Lesse velocemente il nome.
-Mark, quante volte te l'ho detto di non importunare il signor Gargoy? E' un tecnico informatico specializzato in lotta agli hacker, un pezzo repativamente grosso...-
-Non è stato sempre un tecnico informatico, il signor Gargoy: leggi qui-
Il Supervisore sospirò. Inutile discutere. Si avvicinò, leggendo il paragrafo introduttivo del file Word.

Lesse per cinque minuti interi... e lo rilesse.

-Evidentemente avevo ragione quando dicevo di aver già visto Alberto Gargoy, no?- esclamò trionfante Mark.
-Oh, si...- mormorò il Supervisore, ancora stupefatto.

In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro...


SPOILER (click to view)
Ogni relazione a fatti, cose e personaggi è puramente casuale, come da frase superiore. Il furto al grattacielo di Alberto non ha alcuna relazione con il furto alla Torre d'Ebano di Alicamantus, nè la posteriore assunzione di Alberto un rimando all'entrata di Alicamantus negli Elessedil.
Quanto alla "E" puntata, essa sta solo casualmente per Elenrhal.








O almeno credo.


Edited by Alicamantus - 9/10/2007, 18:09
 
Top
view post Posted on 8/10/2007, 18:44
Avatar

deva


~

Group:
Member
Posts:
10,795

Status:


In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro...

Vita piatta.
Vita monotona.
Vita piatta e monotona.
Vita monotona e piatta.
Vita, piatta. Piattissima.
Monotona.

S'era oramai perso nei propri pensieri, tanto da ignorare completamente le risatine dei suoi alunni e, soprattutto, da non accorgersi di aver frantumato il piccolo gessetto bianco contro la lavagna.
Si destò, colto da un'improvvisa sensazione di "oh, cazzo.", scrollando il capo e sistemando con il mignolo -l'unico dito rimasto intonso- gli occhiali, spostandoli più su verso la gobba del naso.

«Vi prego di fare silenzio. Non mi pagano per starvi a sentire mentre ridacchiate fra di voi...»

«Credo non la paghino nemmeno per dormire ad occhi aperti, Professore.»
aggiunse, o meglio fece constatare, un ragazzo in prima fila, sedusto scompostamente sullo stretto seggiolino marrone scuro.

Sbatte ripetutamente le mani fra di loro, tentando d'eliminare -inutilmente- la polverina bianca che s'era attaccatta alla pelle, rendendo lo sfregare le dita tanto doloroso quanto graffiare un muro con le unghie.

«Acuta osservazione, Signor Pitersburg. Se solo mettesse un decimo della sua sagacia nello studio della Matematica, e nei rapporti interpersonali...» un cenno abbozzato del mento pose l'attenzione dell'intera aula sulla brunetta che stava "sgallinando" dietro il soggetto del pettegolezzo, trasformando il candore di quella cheerleader casa-e-chiesa in un rosso imbarazzo.
«...sicuramente andrebbe meglio a scuola...e a letto, se mi permette la similitudine.»

Appena finì di pronunciare le parole, seppe subito che gli sarebbero costate una denuncia disciplinare da parte del Corpo Alunni-Genitori: l'ennesima e, sicuramente, non l'ultima.
Osservò sconsolato il volto degli astanti, cogliendo solo in alcuni l'impercettibile scintilla dell'attenzione, trovando invece, nella maggior parte, lo sguardo di chi ha per la testa tutt'altro che il Calcolo Infinitesimale.

«Per oggi è finita. E' una bella giornata, quindi i ragazzi avranno occasione di andare a spaccarsi qualche osso al campo di rugby, mentre le ragazze potranno agitare i gatti morti» qualcuno sorrise «per sciogliere i muscoli.»

Nessuno, ovviamente, avrebbe mai ripassato la sua lezione.

~•¤•~

Lanciò le chiavi nella ciotola in ottone dopo aver chiuso svogliatamente la porta con il tallone.
L'odore d'umidità investì in pieno i sensi di Damien, facendogli dimenticare l'idea di mettersi qualcosa sotto i denti; raggiunse svogliatamente il divano letto, ancora sfatto dalla notte precedente, sedendosi ed appoggiando i piedi al piccolo davanzale interno del finestrone: la vetrata copriva l'intera lunghezza della parete, sfiorando -centimetro più, centimetro meno- la ragguardevole cifra di otto metri.
Decisamente, quello era l'unico particolare che aveva convinto il giovane professore a comprare il capannone adibito a monolocale.
La vista era mozzafiato, concedeva allo sguardo una panoramica quasi a 200° dello skyline new yorkese, integrando il tutto con uno squarcio di cielo capace d'offrire il tramonte più "smogless" della costa orientale.
Lasciò che il capo scivolasse oltre il poggiaschiena del divano, fino a penzolare pericolosamente oltre l'arredo color arancio spento: gli occhiali, per naturale conseguenza, vennero a mancare d'uno solido equilibrio e terminarono la loro breve caduta in un tripudio di vetri infranti e scheggie lanciate in ogni dove.

«Cazzo.»

Stette lì ad osservarli un altro pò, prima che la gola iniziasse a chiedere pietà per la scomoda posizione; fece per raddrizzarsi, ma togliendo i piedi dal davanzale in pietra, il corpo si trovò sbilanciato per pochi secondi, sufficienti a far ribaltare lo schienale e, con esso, il docente universitario.

«Cazzo.»

~•¤•~

I viali newyorkesi sono pieni di magia.
In una frazione di secondo, sanno aprirti migliaia di mondi diversi, universi tutti collegati fra di loro e misteriosamente intercambiabili: in un attimo, potresti ritrovarti in una dimensione parallela in cui la neve inizia a scendere piano piano, accorciando le distanze fra te e le ferie natalizie, oppure potresti venir scippato e pure assassinato, se hai la fortuna di trovare il "servizio completo".

Damien accelerò la camminata, stringendosi il cappotto del mercatino attorno alla vita, bloccando solo in parte gli spifferi maligni di vento che continuavano ad insinuarsi fra le pieghe degli abiti.
Raggiunse in fretta e furia la porta d'uno scantinato, un portone rivestito da cuscinetti rossi e neri e adornato dalla scritta al neon "Bottomless".
Allo stipite, un enorme omaccione con la cuffia all'orecchio difendeva la propria postazione, squadrando ed incutendo timore ad ogni passante, sia che egli fosse interessato o meno a -provare ad- entrare nel locale.

«Buonasera Alfred. Stasera fa freddo, eh?»

Il burbero -seppur silente- gigante inclinò la schiena, rompendo la posa plastica.

«Rumba Rambo? Coma mai stasera così presto?»

Damien si voltò d'istinto, accorciando il collo e nascondendo, quanto più possibile, il volto nel colletto del cappotto nero.

«Shhhh! Alfred, dannazione, non usare il mio nome d'arte con così tanta nonchalance. Su, fammi passare, che la sotto sto sentendo freddo.»

Indicò con lo sguardo le sue zone intime, pudicamente coperte dal soprabito.

«Scusa capo. Dai entra e in bocca al lupo per lo show: ho sentito che Machoboy ha vomitato nei camerini...»

«ANCORA?!!»

«Essì. Ha bevuto troppo Martini prima di fare lo spettacolino.»

Sbuffò, spingendo la porta con la spalla e tuffandosì dirimpetto all'interno del locale.

~•¤•~

Se fuori era freddo, lì dentro era l'inferno.
Le luci soffuse, rossastre, i divanetti rosa sparsi per la sala, collegati fra di loro da piccole scalette e balaustre in oro finto e legno laccato: al centro della stanza, un grande palco con il pavimento argentato, il cui bordo pareva ricordare i fili luminosi che si mettono sull'albero di Natale. Ai lati, più rialzati rispetto al resto, due ovali fatti dello stesso materiale del piano centrale, interrotti al centro da un lungo e liscio palo di metallo, terminante al soffitto in una palla stroboscopica.
Pochi clienti riempivano i tavolini, già ebbri di champagne: d'altronde, le aspettative scarseggiavano in quelle serate a tema.

Tuff Tuff.
Un uomo vestito da cuoco salì sul palco, tamburellando più volte sul microfono per attirare l'attenzione, e per testarne il corretto funzionamento.

«SIGNORI E SIGNORE! DONNE, UOMINI E NON!»

Un occhio di bue avvolse il presentatore, isolandolo dall'oscurità che s'era apprestata a scendere sull'intera sala.

«Benvenuti al Bottomless, il locale più "in" di New York! Il locale dove nulla è senza fondo...» dalla prima fila, s'alzò un giovanotto vestito solo d'un tanga striminzito, ed iniziò a scuotere freneticamente il proprio fondoschiena, accompagnato dai fischi -e gl'appalusi- dei presenti «ma proprio nulla!»

Improvvisamente, altri due coni di luce -stavolta color rosa shocking- presero ad illuminare il palco, puntando verso i due pali da lap-dance.

«Diamo un caloroso benvenuto ad Ercule...»

Da una porticina laterale, fece il suo ingresso un uomo alto e muscoloso, vestito solo d'un intimo risalente al periodo greco, col petto villoso ed in mano una spada nera che d'aspetto poco aveva a che fare con una spada.

«...e Rumba Rambo!»

Stavolta, da un'altra porticina simile alla prima, uscì Damien, completamente nudo, se non per un paio di maraças legato proprio lì davanti.
Il docente universitario si lanciò di corsa verso il palo, scartandolo di lato ed afferandovisi con il braccio destro, iniziando una vorticosa rotazione attorno al perno in metallo; gli spettatori, che gli fosse piaciuto o meno, avrebbero visto il ragazzo come mamma lo aveva fatto, tranne per le zone debitamente coperte dagli strumenti che, in quella folle manovra, avevano iniziato a suonare all'impazzata.

«Ed ora....la Diva della Serata!»

Suspence.

«Signori e Signore, un Trans chiamato Desideria! FACCIAMO UN BEL APPLAUSO!»

Una massa informe di suoni, rassomiglianti l'accoppiata di rutti e applausi, si levò dal poco numeroso pubblico, cancellando, per un attimo, la musica a luci rosse che le casse non smettevano di pompare fuori.
Dalla porta principale, oltre al fumo, uscì un ragazzo poco più che ventenne, palesemente palestrato e di bell'aspetto, vestito come le generose donne carioca: sul capo, un enorme cesto di frutta, adornato qua e là da piume di tutti i colori....e non solo.
Damien, dopo aver eseguito un'altra folle manovra da lap dancer, fece per avvicinarsi all'ospite della serata, in accordo con la coreografia concordata con il manager della Diva: a pochi passi da lui/lei, la sorpresa fu decisamente stellare.

«Signor Pitersburg....»

«Pro...PROFESSORE!»





Vita piatta.
Vita monotona.
Vita piatta e monotona.
Vita monotona e piatta.
Vita, piatta. Piattissima.
Monotona.

In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro...

 
Top
Night~
view post Posted on 8/10/2007, 20:31




In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro...




~Danzare nella notte,
quando tutto tace e niente ti disturba,
spesso la nostra vita viene proiettata in un altro mondo,
un altro essere, un altro stile di vita al di fuori di come lo conosciamo,
da una parte maneggi la spada, dall' altra ti destreggi con la penna.
Due realtà diverse, un anima sola.~



Calma piatta, assoluto silenzio, sera inoltrata, la luna avanza nel cielo limpido e cristallino. Ichigo Kurosaki si chiede ancora una volta a cosa serva cotninuare a vivere un esistenza così pacifica e priva di stimoli, qualhe rumore attraversa l' intero distretto di Karakura, città di Tokyo, la grande città delle possibilita, dove per essere qualcuno devi leccare tanti culi, sgobbare ed aspettare che arrivi il tuo momento. Un bicchiere d' acqua è situato sul comodino vicino al letto, dall' altro lato una sigaretta accesa ancora fumante e una bottiglia di rum, l' acqua è sempre rimasta intatta per 4 ore, il rum e quasi terminato. Il ragazzo si alza dal letto, prende la sua sigaretta e fà un lungo tiro.

<< Niente suoni, nulla di nulla, avrei bisogno di una bella scazzotata.>>

Lui non è di certo una persona che lecca il culo.

~

La scuola è sempre lo stesso andirivieni, sopratutto per un ragazzo di 17 anni che vuole qualcosa in più da la vita che gli è stata offerta. Ichigo ha già visto quella stanza.

/Corso riabilitativo, Si risolvono problemi psicologici\

Seduta psichiatrica offerta gratuitamente dalla scuola almeno 2 volte a settimana, chissà quante volte ha visto la sexy psicologa, chissà quante volte ha sognato di scoparsela invece di starsene lì a chiacchierare, la maggior parte delle volte non apre nemmeno bocca, era ora di darci un taglio.

<< Ci rivediamo signor Kurosaki, procede bene la settimana.>>
<< lei che dice.>>
<< io dico che stiamo avendo notevoli miglioramenti.>>

Il ragazzo sorride appena, la psicologa non dovrebbe avere più di 25anni, sculetta appena per mettersi comoda sulla sua poltroncina.

<< Lei dice questo, io dico che osservo il lampadario di questa stanza, come ieri sera ho osservato quello della mia camera da letto.>>
<< Con questo che intende dire si spieghi meglio.>>
<< Intendo dire che odio questa vita, sono nato nel posto sbagliato e nell' era sbagliata, troppo tranquilla per un tipo come me, comunque le dicevo che osservavo il lampadario di questa e della mia stanza ieri sera e sà cosa ho notato?.>>
<< No, prego mi dica.>>
<< Sono identici, proprio come due gocce d' acqua, stessa forma che non cambia mai, queso è il mondo d' oggi un mondo che fà veramente schifo.>>
<< Teoria interessante signor Kurosaki, ma non siamo quì per parlare del mondo, siamo quì per parlare di lei.>>
<< Ok, parliamo di me, sono un ragazzo di 17 anni che si trova già in una stanza di uno psicologo, uno che è stato archiviato più volte come ragazzo senza futuro, un teppestina, uno che invece di ascoltare ciò che dice vorrebbe che lei gli montasse sopra e se lo sbattesse seza ritegno, o viceversa ben' inteso.>>

Lei lo guarda sconcertata, eppure affacinata.

<< Sono quel tipo di persona che fà le cose come gli vengono senza pensarci sù troppo, il ragazzo che non verrà mai assunto neanche come gavetta dalle grandi aziende di Tokyo, uno che se ha voglia di fumarsi una sigaretta ed uscire lo fà.>>

Il giovane estrae una Lucky Strike dal suo pacchetto, la accende ed esce alla svelta senza proferire parola.


~

Il sole che tramonta è una visione piuttosto bella, è sempre la stessa cosa tutti i giorni eppure getta un pò di ombra in quel mondo che è sempre uguale, l' indomani Ichigo avrebbe dovuto fare un' altra visita psichiatrica e chissa se questa volta avrebbe avuto un rapporto sessuale con la sua psichiatra.

<< Se ti ritiri invecchi, se esiti muori, chissà dove la ho sentita questa frase.>>

In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell' altro...



Scusate eventuali errori, nn sn abituato a scrivere col portatile di mio padre.

Edited by Night~ - 8/10/2007, 22:31
 
Top
Rosendal
view post Posted on 8/10/2007, 20:35




Non c'è mai stato modo.
Fin da piccolo, ho sempre trovato difficoltà ad esprimermi, ad articolare il linguaggio in modo uniforme; insomma, sono perennemente affetto da balbuzie. Dalla mia più tenera età ho frequentato corsi e consultato psicologi per eliminare questo difetto. Non migliorai mai; al contrario, divenni timido e taciturno.
Poi, alle elementari, ebbi come maestra una persona deliziosa, una signora sui trentanni dal visino piccolo e gentile. Mi fece amare la poesia, mi fece accorgere che, quando recitavo tali scritti, riuscivo a parlare normalmente. Cominciai a mettere le parole in versi, a scegliere ogni singolo vocabolo con attenzione, a creare assonanze e rime; allora e solo allora, mi sentivo come gli altri.
Lei mi incoraggiò e mi disse che anche Odino, il padre degli dei, parlava in rime; non sembrava affatto intimorita dal nostro passato pagano, anzi ne parlava con molto orgoglio.
E così feci io.
Più tardi, alle superiori, scoprii che la massa non poteva accettare qualcosa di così diverso. Dovetti sopprimere la mia vocazione perché gli altri sopprimevano me.


~

"Ma si può sapere a cosa sei bravo, tu?"
Abbassò la testa dinanzi al
padre fratello zio
una figura che, come gli aveva ricordato più volte, racchiudeva tutto ciò di cui aveva bisogno. Lui doveva solo imparare a soddisfarlo, doveva impararlo e basta. Quella notte era stata l'ennesima delusione, e probabilmente le avrebbe prese.
"Ultimo della classe, ultimo nello sport, ultimo in tutto. Che perdente. Sai solo suonare quella chitarra e andare cianciando riguardo cavolate. Sveglia, la Svezia non è pagana da secoli, siamo cristiani. E togliti quella maglietta metallara del cazzo."
Le mani di zio Sjul tremavano terribilmente dalla rabbia, ed il suo volto era paonazzo. Stringeva là, fra quegli enormi uncini -alcuni le avrebbero chiamate dita- la pagella del quadrimestre, e la torturava, la stropicciava fino a piegarla, fino a stracciarla, fino a farlo impazzire nell'attesa della punizione.

~

"Hey, perdente, non giochi ad hockey con noi?"
"N...n...n...o."
Gli bruciava la schiena, gli bruciava così tanto che non poteva nemmeno sedersi.

~

Era stata l'ennesima, seccante giornata. Una giornata triste, priva di significato, sola. Qualcuno aveva staccato i colori al mondo e tutto era monocromo, inaccettabile e stantio. Si affacciò dalla finestra della classe e inondò i polmoni di una brezza algida che, in qualche modo, lo fece stare meglio. Portava con sé gli echi lontani di una foresta antica, di druidi silvani che celebravano antichi riti per la Madre Terra. Quella immagine gli piacque molto, e la conservò nel suo intimo, ove nessuno poteva rimproverarlo.

Le sue mani si bagnarono dell'umidità esterna; le asciugò passandole sulla maglietta targata a chiare lettere IRON MAIDEN, tirando su col naso. Le lezioni erano finite già da un pezzo, ma non sentiva la necessità di tornare a casa, dove l'accoglienza sarebbe stata comunque pessima. Anche se la scuola non gli piaceva affatto, ora che i corridoi erano vuoti, sentiva finalmente la libertà e la pace di cui necessitava.
Camminò a lungo sotto la luce al neon, guardando di tanto in tanto a destra e a sinistra per capire dov'era; la sua testa era piena di pensieri ridondanti, che occupavano completamente il suo cervello.
"Perdente", così lo chiamavano.
Forse era vero, ma quella sola parola, unita a molte altre precedentemente dette, lo faceva soffrire sin nel profondo. Nessuno, tuttavia, pareva farci caso, e prenderlo in giro e buttarlo nel cestino dell'immondizia era uno sport troppo divertente per non essere praticato.
Cominciava a sentirsi veramente inutile come dicevano loro, lo sentiva davvero dentro di sé; in lui, era nato il dubbio gravoso di essere incapace in tutto.

"Rosendal?" quella parola lo sorprese, interrompendo il suo solito -noioso- flusso di coscienza.
Era una voce carina e delicata ad averla pronunciata, che aveva già sentito da qualche parte. Faceva quasi piacere essere chiamati così, ma sobbalzò comunque, perché non era abituato a non udire il suo nome con qualche insulto nel mezzo.
"Ma dai, sei proprio tu!"
Quasi non credette ai suoi occhi. Era sempre quella donna gentile che gli aveva insegnato tante cose, non più sulla trentina perché gli anni passano, ed anche lui non era più un bambino.
"M...m...ma...e...s-s-s-s...t...ra!" si ritrovò a dire, un pò stupefatto, un pò imbarazzato, perché da quando aveva finito le elementari il suo modo di parlare era divenuto peggiore, e lui era proprio un ragazzo impacciato ed inutile, come tutti gli dicevano sempre.
"Ti trovo bene, Rosendal. Sei divenuto molto carino, sai?" disse la signora, guardandolo con occhi grandi, da cerbiatta e da madre. Lui si passò una mano fra i folti crini castani, arrossendo vivacemente.
"Vieni un attimo, cara? Ti faccio conoscere un mio ex-allievo."
esclamò la signora, chiamando la figlia appena uscita dalla presidenza.
Rosendal si voltò verso la persona cui erano rivolte quelle parole: era una ragazza dai lunghissimi capelli biondi come il grano e dagli occhi grigi profondissimi, che sembravano un cielo oppresso dalla tristezza. Sembrava molto timida, perché non disse nemmeno una parola. Sua madre parlò a lungo con Rosendal di come si erano trasferiti di recente in città e questi la ascoltò, non riuscendo tuttavia a distogliere lo sguardo da quelle iridi malinconiche che l'avevano travolto, in un Maelstrom di sensazioni ed istinti.
"C...c...o...me... t-t-ti... c-c-ch...ia...m-mi?"
chiese, inaspettatamente, (aveva interrotto persino l'insegnante) come se le parole, dalla gola, fossero sgorgate da sole, facendo vibrare le corde vocali.
La Maestra gli sorrise con una linea amara fra le labbra, stringendo a sé la sua "bambina".
"Vedi, Rosendal... Urð è muta. Non può risponderti. Tu forse un giorno riuscirai a migliorare questo tuo difetto, per lei, invece, è impossibile."
Si ritrovò improvvisamente in una situazione imbarazzante. Urð, che era così triste, lo divenne possibilmente ancora di più. Gli fece dei cenni con le mani, nel tentativo disperato di dirgli qualcosa. Rosendal non capì, ma sorrise in modo affettuoso per rassicurarla, e lei corrispose alla sua serenità.
"Ora devo andare, caro. Spero di rivederti presto, ed esercitati sulla poesia."


Poesia? Cos'era la poesia? Quella ragazza era una poesia. Il suo silenzio-assenso, la sua delicatezza, lo sguardo profondo ed infinito che sapeva dare: quella era la più profonda poesia. E non aveva mai trovato così tante bei verbi in un rigido silenzio.
Lei aveva parole che non aveva mai immaginato. Quell'emozione che gli aveva donato quel giorno i suoi occhi valeva ben più di mille rime.

~

Tornò a casa con una buona dose di felicità nel corpo. Qualcuno aveva rimesso i colori al mondo, ed ora sembrava tutto diverso, più bello, migliore. Si disse che ora sarebbe stato capace di affrontare molte cose.
Salutò gli zii e si fiondò in camera sua. Zia Tekla si voltò verso il marito, posando il piatto sul tavolo ove lui sedeva.
"Caro, ma tu hai mai visto Rosendal anche solo parlare con una ragazza?"
L'altro negò col capo, mentre leggeva fitto fitto il giornale, senza staccare mai gli occhi di dosso dalla pagina.
"Sicuramente è gay. Quel tipo è una delusione continua. Lo darei volentieri via, ma ci aspetta una buona parte di eredità se lo portiamo buono alla maggiore età. Dopo ce ne sbarazziamo, cara, non preoccuparti."

~

Dentro la sua stanza, Rosendal pensava.
Forse siamo simili: entrambi non riusciamo a comunicare. Lei non cerca commiserazione, cerca qualcuno che riesca a comprenderla. Voglio renderla felice, libererò il cielo dei suoi occhi da quelle nuvole di tristezza.


Dentro la sua stanza, Rosendal pensava.
Cercava un modo per comunicare con lei, per farsi capire senza parole. Non voleva farla vergognare della sua menomazione; anzi, quell'unico silenzio che gli aveva offerto era valso per lui moltissimo.
Quella sera, guardò il telegiornale dei sordo-muti con attenzione, ed imparò qualche gesto basilare. Seppe dire: "pace", "guerra", "libertà", "amore", parole importanti e significative, che gli fecero tremare il petto.
Non si sentiva più inutile. Dentro di sé c'era uno strano calore, ed era opprimente e doloroso. Bellissimo.
Seppe solo allora di essere vivo.

~

Si ritrovò sotto casa sua e quasi non seppe perché. Era rapito, semplicemente, alcuni avrebbero detto innamorato. Aveva conservato il biglietto da visita della Maestra e, adesso, sapeva che aveva fatto bene.
Prese la sua chitarra e l'imbracciò. Fuori, nel gelido inverno svedese, faceva un freddo che entrava fin nelle ossa. Sentì le dita diventare dieci legnosi ghiaccioli, scoperte com'erano per permettergli di suonare lo strumento. Provava un dolore lancinante, lì, ed uno più forte al petto. I suoi denti battevano fortissimo l'uno sull'altro.
Quella notte suonò per lei "My Gift of Silence" dei Blackfield, una ballata mozzafiato.
Forse non sarebbe servito proprio a niente. Non aveva amici, e forse non avrebbe avuto mai nemmeno l'amore di lei. Ma le avrebbe donato il suo cuore, lo avrebbe fatto con disinteresse, con amicizia e profonda tenerezza. Forse lei non gli avrebbe mai permesso di toccarla. E Rosendal lo avrebbe accettato, sfiorando solamente le corde del suo animo. Senza mai stringere, senza pretendere mai nulla.
Per Urð, la sua musa muta.

Don't blame yourself,
Don't change yourself,
Just want to be over you
Save your love,
Don't hate yourself.

 
Top
°The wolf
view post Posted on 8/10/2007, 22:12





Sangue.
Lo schermo rosso, scarlatto, irto di un sentimento grigio e macabro. Guerrieri che saltano da una parte all'altra, potenti maghi che evocano insane creature. Tu sei li, fermo ed impassibile, a guardare quella scatola nera che manifesta figure, come un'incanto che ti blocca il pensiero, che ti atrofizza il cervello.
Un rumore assordante, la luce svanisce.

« Non è ora di spegnere? »

« Ancora un po, voglio sognare ancora un po. »

Un'uomo solo, in un'angusta stanza completamente bianca.
Delle linde figure lo inducono a spegnere la scatola nera, quelle onde gli facevano male. E' facile vedere come una persona possa sentirsi forte ed imbattibile se resta nel suo mondo.
Ancora qualche minuto, poi il buio.
L'uomo se ne torna a letto, la sua vita gira attorno ad un circolo continuo di dispiaceri. Fino a che una donna, con un delicato manto nero, si ferma dinanzi al suo letto ed inizia a parlare sottovoce, stringendo la croce che porta al collo. Le sue parole risuonano deboli nella piccola stanza, sono in contrasto con i numerosi suoni metallici presenti.
Fuori dalla finestra si vede la gioia dei bambini che giocano, davvero bello, essere liberi, essere a posto, non avere problemi.
La donna va via, viene sostituita dalla ragazza di prima, intenta a trafficare con i marchingegni presenti. Mette a posto il cuscino, bene sotto la testa, e poi un sospiro profondo, quasi rinquorante.

« Sa, infermiera...
ultimamente vengono a trovarmi più spesso!
Sono felice di questo, anche se non è un buon segno.
Lei come mi trova? »


Uno sguardo malinconico, nel tentativo di ignorare quella malformazione alla gola. Un piccolo segno, un minuscolo livido. Come può una cosa così piccola spegnere una vita?
Me lo chiedo spesso anche io che, in questo momento, sto narrando la storia di un'uomo.
Un'uomo a cui devo molto, a cui ho voluto bene e a cui vorrò sempre bene.

« Sta benissimo... »

Parole dolci, false, rilassanti.
L'uomo sorride, basta così poco. Ripensa per un attimo al gioco di prima, spera di riuscire a superare l'ultimo livello. Spera di riuscire a battere il più potente dei mali.
Spera di vedere la luce di domani.

« Ieri è venuto mio nipote...
Che bravo che è...gli ho dato la mancia!
Poi sono passati i miei figli...
la femmina piangeva, ma non so perchè.
non me l'ha detto.
Questo Natale abbiamo deciso di andare a mangiare tutti insieme!
Tanto, domani mi dimetteranno... »


A quel punto la giovane infermiera esce dalla piccola stanza.
Prepara la cena, l'uomo è felice. Pensa ancora al suo videogioco, domani dovrà affrontare una missione pericolosa, spera di non morire, non ha voglia di rifare tutto da capo.
Al medesimo pensiero si fonde un'altro tipo di morte. L'uomo pensa, capisce...ripete, questa volta ad alta voce, non voglio morire...
Dopo la cena si mette l'ossigeno, ultimanete ne aveva bisogno. E pensare che era venuto in questo posto solo per un controllo. C'erano persone che ridevano alla vista dell'uomo che indossava buffi cappelli, ripetendo che non stava bene, che aveva mal di testa.
Alcuni pensavano che era ridicolo, lo ripetevano, ma da quel giorno non l'hanno detto più. Si sono rammaricati, hanno pianto ed alcuni piangono ancora. L'ultima volta che l'hanno visto, non sono stati visti.
Lui era li fermo, con l'ossigeno in gola. Pensava alla sua famiglia, gli luccicano gli occhi. Di fianco, una foto con raffigurato un Santo, durante la battaglia contro un drago. Già, sarebbe bello se malvagità del genere potessero essere debellate per sempre.
Invece no.
Nemmeno una spada potè fare qualcosa; quando c'è un nemico che ti attacca dall'interno, consumandoti. Una lacrima scende sul viso dell'uomo.
Sorride e lascia cadere la sua mano.
Chiude gli occhi.
Non li riapre.
Non li riaprirà più.

Ora ci guarda, e piange insieme a chi gli ha voluto bene.






 
Top
Orphen'
view post Posted on 9/10/2007, 13:06




Io bevo per dimenticare
bevo per non stare male
bevo che cosi' mi drogo
bevo tutto quel che trovo
bevo che non mi fa niente
bevo come un deficente.
Io bevo che mi da la carica
bevo che la vita e' stupida
bevo solo per fare rabbia
a chi ha la testa nella sabbia.


Il sole era sorto da pochi minuti, e baciava un volto su cui figurava una sottile e pungente barba incolta ed un rivolo di saliva calcificata. I raggi filtravano quasi a fatica tra tutte quelle costruzioni, ma arrivavano a ricoprire in pieno un corpo protetto solo dalla presenza di giornali sul suo corpo, usati come coperta per superare la fredda notte. A loro si aggiungevano due solidi bidoni di un verde particolarmente acceso ai suoi fianchi, aditi a difenderlo dalle raffiche di vento.
Dall’altezza della stella del mattino, giudicò che fossero più o meno le sette del mattino e come se si fosse appena alzato da un comodo letto, si stirò, sollevando quelle improvvisate coperte ed andandosene.
Si sa, i bar sono sempre tra i primi ad aprire.
Non camminò molto, era solito addormentarsi molto vicino al locale, così da non essere costretto a percorrere distanze enormi. Era troppo pigro per essere un senzatetto.
Spalancò la porta del locale barcollando per la stanchezza dell’improvviso risveglio. I due si guardarono come se sapessero già che si sarebbero dovuti incontrare, come se la cosa avvenisse ogni giorno da tempo.
’Giorno, K.” Cominciò a parlare il barista, mentre prendeva dal frigorifero alle spalle del suo balcone la prima bottiglia di birra della giornata.
Sbadigliò vistosamente, senza portare alcuna mano a coprire le labbra. “Heilà, Lou! E’ pronto dietro?” S’avviò verso il bagno degli uomini, come sapesse già la risposta.
Se ti impegnassi tanto nel trovare un lavoro come nell’imbrogliare gli altri a quest’ora saresti anche un ottimo dirigente d’azienda. Ed allora si, che spenderesti milioni di birra, qui da me. Ah, tutta colpa di quella sgualdrina...” Lou parlava come se conoscesse il giovane da tempo. Il che fondamentalmente era vero, anche se c’era qualcosa che non permetteva di chiamare il loro rapporto amicizia. Anzi, il termine più adatto è simbiosi, per quanto ancora non permetta di dipingere appieno la situazione. Uno serviva all’altro per avere il denaro necessario per sopravvivere, l’altro guadagnava su quelle banconote sonanti. E tutti erano contenti.
Non provare a chiamarla così, Lou, lo sai." Il tono di voce era quasi normale, ma c’era qualcosa in esso che lasciava intuire che non sarebbe convenuto al barista proseguire su quel piano. Lou non lo sentì.
Andiamo, per lei hai lasciato il lavoro, i tuoi parenti, i tuoi amici. E cosa fà? Va con il tuo ex-superiore, roba da matti. Così tu ti ritrovi per una strada, licenziato dopo aver lottato per farla riassumere, e lei ora è una dei cervelloni della tua vecchia azienda. Potrebbero farci un film, sopra. Io lo farei, chissà, ora sarei già ricco.
Lou, tu hai una laurea in marketing e comunicazione e gestisci un bar che frequentano solo due o tre uomini al giorno su di una popolazione cittadina di oltre centomila persone. Credo tu sia l’ultimo che dovrebbe parlare.” Rispose in modo da apparire il meno offensivo possibile, ma sapeva che le sue parole avrebbero ferito e colpito nel segno.
Quale, oggi?
Non ricordo il nome, un ristorante di lusso verso la periferia.
Sistemato le finestre?”
Si, da ieri, non preoccuparti, mammina.
Un giorno lo sai che i ristoranti ed i locali in città finiranno, no?
Si, si…
Approfittò dell’istante di silenzio per concludere il suo lavoro in quel cesso. Si lavò le mani e quanto possibile. Estrasse da una tasca un rasoio, radendosi senza schiuma, sentendo la lama sulla pelle nuda. Terminò l’operazione quanto prima possibile, terminando il tutto cambiandosi gli stracci con un abito preso da una valigetta che Lou custodiva oltre il bancone. Ora come ora, appariva un rispettabile uomo d’affari. Giacca e pantaloni neri, camicia bianca, capelli castani adagiati come una parrucca sul suo capo, volto pulito, valigetta in kevlar, odore bene o male gradevole. Una piacevole metamorfosi.
L’ho sempre detto che avresti dovuto fare il prestigiatore. Vedi? Sei bravo in quelle cose.
Andiamo, alla magia non ci credono neanche più i bambini. Ho un cervello, lasciamelo usare.
Male.
Solita storia tutte le mattine. Tutto ciò era paurosamente ripetitivo. Non si salutarono, sapevano si sarebbero rivisti entro la giornata, si limitò a sollevare la bottiglia di birra ed a berla mentre s’allontanava. Era un copione già scritto sulla pelle del giovane ventenne, che non si poteva cancellare se non strappando via la carta su cui era affondato l’inchiostro. Era un qualcosa di molto simile al non essere morti, vivere per sopravvivere. Come un animale.

Passò poche ore girando per la città, cercando la situazione adatta. Si trovò in una stradina poco frequentata, dove di solito passavano macchine in fretta e furia pur di arrivare in tempo ad un lavoro per cui, almeno loro, avrebbero avuto uno stipendio fisso.
Scelse un’auto, di quelle che apparivano meglio sistemate. Doveva dar l’impressione di essere un ricco imprenditore, qualcun di cui avere fiducia, e quella sarebbe stata la sua autovettura. Decise per una vecchia BMW, roba di classe. Nera fiammante, lucida, anche se non certo una delle migliori. Si avvicinò allo specchietto che dava sulla strada, rompendolo con la valigetta. Lo specchio era in frantumi, la struttura meno, ma quanto bastava per rendere la cosa più grave di quando non fosse.
Si nascose in seguito al lato del cofano, attendendo. Cosa? L’arrivo della persona adatta.
Solitamente non si aveva molto tempo per quelle operazioni, così si limitava a decidere in base alla vettura che sopraggiungeva ed al sesso del pilota. Stavolta preferì un uomo sulla quarantina al volante di un’Audi TT. Una di quelle persone che farebbero di tutto pur di non cadere in problemi legali riguardo il proprio mezzo di locomozione.
Sollevò d’improvviso la valigetta nell’istante in cui le due vetture s’incrociarono, rompendo anche a lui lo specchietto laterale, in modo che si avesse l’impressione che l’urto fosse avvenuto tra le due auto danneggiate in quest’ultimo impatto. Fuoriuscì dal suo modesto nascondiglio quando si accorse che il guidatore si era fermato dopo essersi accorto dell’impatto.
MA NOOOO, COS’HA FATTO??? IL MIO SPECCHIETTO, L’AVEVO APPENA RIPARATO, MI ERA COSTATO DUECENTO EURO!!!
L’improvvisata vittima dell’inganno uscì dalla sua TT con un volto più spaventato di quanto non accadesse di solito. In preda ad evidente carico adrenalinico, guardò freneticamente la parte danneggiata della sua auto, passando poi lo sguardo sulla BMW parcheggiata. Il suo tono di voce era pacato, come quello di chi cerca di domare un cane infuriato quando sa che non può scappare.
Ma no... mi scusi, davvero, è che vado di fretta, sono in ritardo per il lavoro...
Il giovane continuò la sua recita, reagendo di conseguenza. “LO ERO ANCH’IO, MA ORA LO SARO’ CON UNA MACHCINA DISTRUTTA! PER CASO FA’ COLAZIONE CON BISCOTTI E WHISKEY CON TRACCE DI LATTE, EH, DEFICENTE? MA PORCO GIUDA...
Ma no, ma no...” I suoi fonemi erano ancor più delicati di quanto non fossero in precedenza. Tutto come da programma.
ORA CHI LA SENTE, L’ASSICURAZIONE, MERDA, MERDA!” Finse di prendersela con la sua stessa auto, muovendo ripetutamente le mani in direzione del danno, con ampi gesti, come un uomo pronto a perdere il controllo.
No, beh, non si preoccupi... Se vuole, le do le duecento euro di danno e la facciamo finita subito, senza chiamare nessun’assicurazione ne altro, davvero... E’ tutta colpa mia...” Estrasse rapidamente ed in modo frenetico duecento euro dal portafogli, muovendo le dita quasi prossimo ad una crisi di panico. Troppo, troppo facile, quasi non c’era gusto. Per quanto gusto si potesse trovare nell’ingannare il primo che passa.
Prese con violenza il denaro dalle mani del quarantenne, quasi strappandolo. Alla presenza delle due banconote verde speranza finse di ritornare a controllarsi
Spero per lei che il danno non sia più grave di quanto non appaia.” Il suo sguardo era severo. Peccato non aver intrapreso la carriera teatrale.
A queste parole, visibilmente desideroso di andar via, vista la gamba tesa in direzione della sua Audi, concluse. “Le do altre cinquanta euro, ok? Ora mi scusi ancora, devo davvero scappare, ok?
Andiamo, è troppo semplice, così. Il nervosismo dell’uomo di notava anche dall’anteporre sempre le medesime parole, parole in cui cercava sicurezza. Se avesse voluto, sarebbe riuscito a spillargli anche trecento euro, ma in situazioni così delicate si finisce sempre con l’attirare l’attenzione, meglio contenersi. Prese le altre banconote come in precedenza, seguendo l’uomo andar via con lo sguardo fisso su di lui, sulle sue iridi gelate dalla fretta e dal bisogno. Probabilmente, visti i movimenti inconsulti delle cosce, doveva anche correre al bagno. Lo lasciò fare, restando da solo.
Duecentocinquanta euro in cinque minuti di sceneggiata, neppure Brad Pitt era pagato tanto. Forse.
Ripetette il tutto altre due o tre volte, poi il suo stomaco suggerì che era meglio prepararsi al pranzo. Giunto a pochi chilometri dal locale in programma, cominciò la seconda parte del programma. Cercò una donna da sola di passaggio da quelle parti, avvicinandola con la prima scusa possibile. Non seguiva un copione preciso, in questi casi improvvisava in base alla situazione. Stavolta ne vide una uscire da una chiesa, senza nessuno intorno. E dall’aspetto, sembrava portasse con sé un portafogli pesante. Le si avvicinò con la prima scusa trovata sul momento. Cominciò a parlare di come non fosse del luogo ed avesse bisogno di una mano, terminando il tutto con un invito a pranzo per scusarsi del disturbo. E solitamente, qualcuno che esce da una struttura religiosa in piena settimana ha molto tempo da perdere e pochi legami, pensiero confermato dall’assenza della vera sulle sue dita.
Si diressero insieme al locale a cui aveva progettato il terzo copione il giovane ventenne. Entrarono insieme, trovando un tavolo libero lontano dalla finestra. Tutto come da programma, solitamente posti del genere non sono mai pieni nel periodo infrasettimanale, e i posti vicino l’esterno sono sempre i primi ad essere occupati. Da galantuomo, l’aiutò a sedersi, sollevando la sedia quand’ella fece atto di accomodarsi a tavola.
Parlarono del più e del meno. Una quantità infinita di fandonie, che solitamente improvvisava sul momento. Ordinarono quanto di più costoso vi fosse sul menù, poc’importava, alla fine. In fondo, offriva lui.
Al termine delle portate, s’alzò dal posto. Il suo volto sembrava quasi paragonabile al sorriso ingenuo di un bambino che saluta per l’ultima volta un giocattolo rotto.
Torno subito.
Si diresse ai bagni degli uomini. Li contò, uno alla volta, giungendo fino al terzo. Si, se non ricordava male, era esattamente quello. Vi si chiuse dentro, agendo sulla sottile finestra che dava sull’esterno, una stradina malmessa sul retro del locale. Lontano dallo sguardo indiscreto di eventuali estranei. Allentò la vite che teneva sigillato il vetro, calando lentamente la struttura e creandosi un’uscita per l’esterno. Silenziosamente, con passo calmo, s’allontanò da quel locale e da quella donna. Portò la mano alla tasca, estraendone un portafogli ripieno di banconote. Gliel’aveva sfilato mentre l’aiutava a sedersi.
Non sentiva soddisfazione in quello. Lo faceva perché era tutto ciò che sapeva fare. Fosse dipeso da lui, se ne avesse avuta la possibilità, sarebbe tornato indietro, avrebbe pagato quel conto ed avrebbe fatto le sue scuse alla donna. Avrebbe ripagato tutti coloro che aveva truffato, ma la necessità è da sempre più forte della volontà.
Si diresse direttamente verso il bar di Lou. Vuoto, come al solito.
Com’è andata oggi, K.?
Millecinquecento euro. E venti centesimi.
Almeno quelli avresti potuto lasciarglieli.
E’ sui centesimi che si costruiscono i milioni. Ed aprimi una birra.
Stappò la prima birra. Sarebbe stata la prima di tante. Ubriaco, avrebbe speso in alcolici buona parte di quel denaro. Si sarebbe cambiato e sarebbe andato a dormire tra i suoi bidoni. Il giorno dopo avrebbe investito i suoi guadagni illegali in giochi d’azzardo, perdendo tutto come al solito. No, non si sarebbe potuto permettere di comprarsi una casa, pagarsi un affitto. Viveva nell’illegalità, non poteva permettersi di essere rintracciabile. Non aveva vie d’uscita, da quell’esistenza.
Sperava quasi nella galera, fonte di vitto e alloggio gratuito. Ma forse sognava ancora che quella donna venisse a prenderlo. Per una volta, era lui quello da salvare.
Ma si sa, i sogni si chiamano così perché non si realizzano, ed il suo era più paragonabile ad un incubo ricorrente dal quale non riusciva a svegliarsi.


CITAZIONE
Citazione iniziale tratta da "Transalcolico" dei "Negrita".
Edit: Corretto colore.



Edited by Orphen' - 10/10/2007, 22:14
 
Top
Usag¡
view post Posted on 10/10/2007, 11:56




Premessa: Naturalmente è l'estrapolazione del mio personaggio, e in questo vi si ricollega la capacità delle vista di una veggente, ma in un mondo reale ci si trova a dover convivere questo peso.
Quindi ho pensato a chi magari svolge questa "occupazione" perché convinto realmente delle proprie capacità ma viene usato come capro espiatorio di una società ignorante.
Mi scuso sin da ora per qualsiasi errore di battitura =)
--



- Che fai! Tocchi?
- Assolutamente no, cercavo una cosa...
Ecco, nuovamente provava a frugare sotto il tavolo, poggiando le sue sudicie zampe un pò dovunque, senza rendere conto che la maggior parte delle volte palpava con forza i miei polpacci e le caviglie.
No, ma che gli importava infondo?
- Uno Spicciolo! Trovato!
- Ah, quello... spero che tu stia scherzando.
Lo speravo eccome, pretendevo che con molta calma lui tornasse seduto sulla seggiola per continuare il colloquio.
Invece probabilmente la sua espressione seccata era davvero quello che riusciva a unicamente a mostrarmi. Seccata ritornai nuovamente a giochicchiare con le carte che erano rimaste sparse sul tavolino, mentre lui con pacatezza si riordinava le vesti sgualcite.
- Hai delle belle gambe.
Che essere indicibile, si era mostrato così avventato da buttarsi a capofitto sotto la mia sottana senza chiedere neanche, e ora proferiva una sconcezza simile...
- Grazie.
Negare un complimento simile sarebbe stata una stupidaggine, un errore grossolano da donnina di buona famiglia.
I miei pensieri son controversi e alternati dai miei repentini cambi d'umore, legati al clima. Credo d'essere meteoropatica, o qualcosa di simile, il che non mi stupiva più di tanto, visto che era molto affine alla mia vocazione, la mia strada...ciò che mi faceva mangiare ogni sera un pasto caldo.
La cartomante.
- No ma si figuri, continui pure, è da mezzora che sta rovistando. Fra un pò toccherà alle mie mutande.
Furono le carte a distrarre il mio nervosismo verso quell'uomo così ossessivo. Le mescolavo lentamente, facendo scorrere l'indice sul bordo d'ognuna osservando le impercettibili piegature sulla superficie cartacea.
- Mannò, e solo che...
Balbettò imbarazzato, mentre si aggiustava la camicia e dopo aver frugato nelle larghe tasche dei pantaloni.
- Morirà di stenti e affamato.
Rimase qualche secondo statico, con la mascella serrata e nelle mani le chiavi di una splendida fuori serie.
Visibilmente scosso dalla mia "profezia" si sedette sulla sedia che stava di fronte al tavolino delle predizioni.
- Naturalmente lei crederà ad ogni singola mia parola, visto la sua presenza in questo angusto luogo... Saturo di incenso e ricco di tappezzeria pacchiana pareva la dimora di una grassa e grossa donna, ricolma di ninnoli e con un eccentrico turbante. Invece lei, nascosta tra i vivi colori pareva fuori luogo: minuta e chiara, sia i suoi occhi che il carnato erano di un tenue colore (lei era albina). Tutto ciò la faceva rassomigliare a una modella, o ad un attrice giovane e carina, ma il destino l'aveva portata ben al di fuori di qualsiasi tipo di mestiere che potesse rendere la sua figura una nuova icona di stile. - Ma io faccio solamente questo lavoro per mangiare, visto che è l'unica cosa che riesco a fare.
Un sorriso amaro percorse il viso, lasciando dedurre all'interlocutore la difficile scelta che in passato aveva preso.
- Voi truffate, o perlomeno fate questo. Dite cose non vere o per farci piacere...
Con forza pronunciò quella frase, convinzione e decisione di chi aveva ben chiara la sua posizione nel gioco, sapendo come e dove ferire.
- Io naturalmente non l'ho invitata qui, e dunque mi chiedo:
Chi vuole farsi ingannare io o voi?

L'uomo si zittì, perdendo così velocemente la sua foga proprio come l'aveva guadagnata.
Non accettai i soldi e le ingiurie.
Mi dileguai dietro ai pensati tendaggi, che nascondevano il silenzio di un modo tutto io, rifugio da me stessa.
Un mondo irreale, dove nascondevo il mio essere diversa, perché non tutti credono a persone come me.
La conoscenza superiore.
Mi prendevano per pazza o squilibrata. E c'è chi mi compativa e chi mi sbeffeggiava, chiamandomi Strega, Sorella del Demonio...Puttana.

Chinavo sempre il capo, perché non ero così forte da poterlo scuotere.

***

- Provo pena per me.
Provo una profonda angoscia verso me stessa, incapace di emergere e di ribellarmi al volere del destino.
Nonostante riesca a vederlo limpidamente.
 
Top
H i g u r E
view post Posted on 10/10/2007, 15:12




In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell'altro...

Quando il sole sorge siamo tutti un po' stanchi. Chi per la lunga nottata passata tra i divertimenti; chi per il disumano desiderio di sprofondare di nuovo a letto, cercando di trovare un buon motivo per non andare a lavoro; chi perchè non ha proprio voglia di fare la verifica di matematica alla prima ora; e c'è chi ha semplicemente sonno.
Alzandosi dal letto, cercò con il piede destro le ciabatte: tastò il terreno con la pianta, invano. Erano finite sotto il letto. E prospettandosi l'immane fatica di chinarsi per prenderle, preferì camminare a piedi scalzi per la stanza. Ancora assonnato, portò la mano davanti alla bocca per nascondere l'imminente sbadiglio. Si diresse verso il bagno, facendo a slalom tra i vestiti sparsi sul pavimento e le varie bottiglie di alcolici vari lasciate dai coinquilini. Una volta arrivato, prese la spazzola, tentando invano di domare la bruna chioma. Il risultato fu, si può dire, da dimenticare. E così mosse confusionariamente il capo, per farli tornare allo stato originale. Andò quindi in cucina, o perlomeno la stanza che così poteva essere definita: anche qui calzini e altri capi di dubbia provenienza, tra cui un paio di mutande giusto sopra il tostapane. Prese dalla credenza una tazza, e ci versò del latte, preso dal vuoto frigorifero. Aperta la dispensa, notò con dispiacere che erano quasi finiti i cereali: appuntò la cosa sui numerosi foglietti posta sopra al frigo. Mentre mangiava, dava un'occhiata ai Post-It, e con suo grande dolore scoprì che quel giorno era di turno al Grest della parrocchia: decine di piccole pesti lo aspettavano per il pomeriggio! Con un groppo in gola buttò la tazza nel lavello, insieme ai bicchieri e alle pentole del giorno prima. Tornò in bagno a lavarsi i denti e poi in camera a vestirsi: maglietta nera a maniche corte - regalo di Luca, infatti aveva sul fronte lo stemma dei Black Sabbath -, jeans e scarpe da ginnastica. Prese dalla sedia lo zaino a tracolla, le chiavi, il cellulare ed il portafoglio e uscì di casa, diretto all'università, poco distante dal piccolo appartamento che condivideva con altri due studenti. Scendendo le scale incontrò la vicina, un'anziana vedova, che lo intrattenne per una decina di minuti raccontando del figlio del macellaio che aveva sposato la cugina della sorella del sarto. Avendo perso abbastanza tempo, per arrivare in tempo alle lezioni dovette prendere la bici, mezza scassata e con le ruote sgonfie. Dalla fretta, una volta arrivato, non la legò nemmeno: entrò in facoltà giusto in tempo per la lezione. Quella era proprio l'università per lui, scelta migliore non avrebbe potuto fare: e poco gli importava per gli sbocchi sul lavoro, fare l'insegnante di Filosofia era un mestiere che lo affascinava!
Sfortunatamente il sonno non era dello stesso parere, e il nostro studente cadde tra le breccia di Morfeo dopo cinque minuti scarsi di noiosa spiegazione.
« ...e penso proprio che quel signore coi capelli bruni possa continuare ciò di cui stavo parlando. »
« Chi cosa dove? »
Si alzò di scatto, intuendo che la persona presa in questione fosse proprio lui. E, sollevando la testa, fece cadere i libri che i compagni di corso, per prenderlo un po' per i fondelli, gli avevano messo sul capo.
« Il metodo dei libri sulla testa è un leggermente obsoleto, e lo usavano nei collegi femminili, signor... »
« Arthur Adams »
« Interessante... da dove viene, signor Adams? »
« Mio nonno, strano a dirlo, si è trasferito qui in Italia dagli Stati Uniti »
Ancora una volta. Mai nessuno che dicesse "Arthur Adams, un normalissimo nome". Perchè gli italiani non si fanno mai gli affaracci loro?
Finita la lezione, uscì dall'università, scoprendo il furto della bici. Dalla padella alla brace.

~ O ~

Un veloce pranzo - un panino preparato il giorno prima, era dannatamente raffermo - e via verso il caos: i piccoletti lo aspettavano con grande gioia, era la loro vittima preferita. E infatti, appena varcò il cancello d'entrata, una marea di bambini tra gli otto e i dodici anni si fiondarono addosso a lui, facendolo cadere, tanta era la loro esuberanza.
« Che bello, che bello! »
« Arthur mi porti sulle spalle?! »
Non poteva rifiutare, i severi sguardi dei genitori erano fissi su di lui. E così fece da cavalluccio a circa quattro-cinque marmocchi, prima di arrendersi all'evidente stanchezza. Per fortuna arrivò Luca a dargli una mano, portando i bambini al campetto da calcio. E, manco a dirlo, i piccoletti trascinarono pure lui.
Luca era il suo migliore amico: un ragazzo venticinquenne, come lui, la classica persona "sesso, droga e rock 'n' roll". Non perdeva occasione per fargli ascoltare uno dei suoi numerosissimi CD: Ozzy Osbourne, Led Zeppelin, Iron Maiden, Pantera, AC/DC. Era l'unico con cui andasse sempre d'accordo: pigro fino al midollo, ubriaco praticamente ogni sabato sera. Il suo compagno di bevute preferito. Senza di lui la vita era più monotona di quello che era. Ogni giorno arrivava con una nuova cazzata.
« Cosa fa un pulcino con una tonaca? »
« ... »
« PADRE PIO! »
« ... MA COW RACES »
« Eh? »
« VACCAGARE! »
E ogni tanto gli rispondeva anche lui.

~ O ~

La partita fu un disastro, i ragazzini erano in grado di fare mischie meglio di una squadra di rugby, e Arthur aveva più volte ceduto alle loro cariche ai limiti del regolamento. Si ritrovò con più stanchezza di prima e con qualche livido sul corpo. Ma qualcosa lo tirava su di morale...
A fare da spettatrice alla partita c'era lei. La sua amata, anche se lei ancora non lo sapeva. Tentò addirittura di fare bella figura con un pallonetto sopra il portiere, ma il bambino, alto più o meno un metro e venti, lo parò senza difficoltà. Almeno lei rise. Eh sì, le sua armi erano l'ironia e la simpatia. Ma lei... pareva troppo perfetta per un perfetto idiota come lui: i suoi occhi azzurri, i capelli neri come la cenere, così lisci... i suoi lineamenti quasi angelici. Proprio come il suo nome: Angela. Un dono sceso dal cielo.
Arthur si avvicinò a lei alla fine della partita. Un po' timido, rivolse parola.
« Ehi, ciao! Come... »
La turba di marmocchi lo prese da dietro, come un placcaggio vero e proprio. Cadde addosso a lei, aggrappandosi ai suoi vestiti. Si levò immediatamente, con la testa china sul terreno e un'espressione paonazza sul volto. Ma lei rideva. E lui, allora, diventava felice. Era l'unica cosa che rallegrava le sue giornate. Uno sguardo, un sorriso... ma neanche un secondo di calma, neppure una parola, che la massa si tuffava nuovamente addosso al nostro povero studente.
« Giochiamo a nascondino? »
« No, lui viene con me! Dobbiamo discutere di una cosa importante, noi animatori! »
Discutere? Dio, grazie di vegliare sui credenti! Andare a messa tutte le domeniche serviva a qualcosa. Lei lo prese per mano e lo portò al campo di pallavolo. Di cosa voleva parlare? Del solito ragazzo più grande che aveva conosciuto in chissà quale motivo, ma che non la cagava nemmeno di striscio - per sua fortuna, tra l'altro- ?
« E... di cosa dobbiamo discutere? »
« Niente, volevo solo che restassimo un po' soli. Sono davvero delle pesti! »
Eh sì, proprio il carattere che voleva in una ragazza.

~ O ~

« Un Calamity Jane Burger »
Alla sera, per mantenersi, lavorava al McDonald. Sì, era uno di quei simpaticissimi inservienti, spesso anche un po' burberi, che servono Happy Meal, McToast e patatine fritte. E, naturalmente, non era sempre calmo e razionale. C'erano i giorni in cui proprio non gli andava di lavorare.
« Se avesse letto il cartellone, saprebbe che l'abbiamo finito. »
Era la... nona volta che lo ripeteva quella sera.
« Nella pubblicità c'era scritto fino alla settimana prossima! »
« L'abbiamo finito. Spiacente. »
« Basta, vado al Burger King! Siete dei cialtroni, voi del McDonald. »
« Grazie, buon pasto. A chi tocca? »
Sempre la solita vita. E il giorno dopo, sveglia alle sette, università, studio, lavoro. La routine pomeridiana lo ditruggeva. Ma il solo pensiero di poterla rivedere il giorno dopo gli dava la forza di andare avanti, di sopportare l'enorme stress e la fatica. Prima o poi sarebbe riuscito a dirglielo. Poco ma sicuro.
« Un Calamity Jane Burger »
E dieci.

 
Top
Caes
view post Posted on 12/10/2007, 13:20




~ Can You Imagine...? ]




Era seduto su una panchina della stazione, aspettando che arrivasse l'ennesimo treno. Da quanti mesi era in viaggio? Otto... Nove? Quasi un anno, insomma. Era lì, che attendeva, nei suoi abiti neri, un po' trasandati. Solo, l'espressione triste, fissava il terreno. L'altoparlante fa un'altro avviso in tedesco, capisce poco, ma gli orari dei treni sono fatti di numeri, fortunatamente. Aveva fame, ma non poteva mangiare. Aveva sete, ma non poteva bere. Si odiava. E stava ricominciando a pensare.
Non faceva più nulla. Viaggiava, semplicemente. Non andava a scuola. Non lavorava. Si manteneva con quei pochi soldi guadagnati vendendo tutto ciò che non gli era più utile. E avrebbe continuato a "fuggire" finchè la sua vita non si fosse spenta.
Anche a costo di morire, non si sarebbe fermato. Perchè se mai l'avesse fatto, ciò che l'attendeva era ben peggio della morte... ciò che lo attendeva era il Ricordo.

Le mie
ferite
non si rimarginano...






.bEfOrE.

03.16 [Città Imprecisata; Italia]


Caldo. Caldissimo. Nel suo letto un caldo soffocante, eppure i suoi piedi e le sue mani sono gelati, ed il suo sudore sembra gelido. Forse è malato, forse no. Non ha importanza. Ha dimenticato l'incubo che l'ha svegliato. L'unica cosa che sente è il ronzìo di una delle ultime zanzare dell'estate che vola vicino al suo orecchio, golosa di un sangue che il ragazzo non vuole cedergli. Si soffoca sotto le coperte. Non resiste, vuole dormire, non sopporta la notte. Non sopporta il buio, essere l'unico sveglio insieme a quegli insetti disgustosi. Impreca, sottovoce. « Basta, prenditi tutto il sangue che ti pare, stronza. » Vuole solo dormire. Si scopre completamente, fino alle gambe, ed il gelo sembra trafiggerlo. Ma almeno il ronzìo è cessato. Si riaddormenta, forse, un'ora dopo.

06.23


Dorme pochissimo, si sveglia, ha freddo. E' solo, in casa non 'è nessuno. Ancora non è sorto il sole, ma cercare di riaddormentarsi sarebbe inutile. Si alza, rimane seduto sul letto per una decina di minuti, la vista offuscata dai lunghi capelli biondi. Uccide Dio una cinquantina di volte, in mente, per non avergli fatto dono del "sogno", o, in parole povere, della capacità di dormire in santa pace. Guarda a terra, e vede un insetto morto, non si muove: la zanzara. Sorride, felice di aver contribuito all'avvelenamento/morte per indigestione di un essere vivente, e si alza più contento, pronto a rilanciarsi nella noiosa monotonia di tutti i giorni.
In piedi, si trascina davanti allo specchio. Lo sguardo stanco, e gli occhi azzurri con un simpatico "bordo" nero, tipo panda. Maledetta notte. Prende, o meglio, pesca dall'armadio (aperto da circa una sessantina di giorni) i primi vestiti che trova. Ogni vestito è nero, quindi non fa alcuna differenza. Scende, beve un caffè e risale, cercando di dare un ordine a quei dannatissimi capelli lunghi. Prende quello che rimane del suo zaino e si prepara, come un soldato che va alla guerra, per la "scuola". Odiava quel posto quasi quanto casa sua. Ah, giusto, odiava un sacco di cose: la notte, casa sua, la scuola ed un altro elenco che ora sarebbe inutile portare avanti. Si mette con violenza le cuffie nelle orecchie, e accende il suo lettore, con qualcosa che possa svegliarlo. Fortunatamente c'è fin troppa musica-sveglia e non deve nemmeno scegliere il brano, che già si sveglia. La musica... Non odiava la musica. La musica è arte. Ed è una delle poche cose che lo aiuta a camminare durante quelle mattine.
Cammina, è ancora presto. Il freddo lo congela, trema. Odia il freddo. Cammina ancora e, in una ventina di minuti, è davanti all'edificio. Non c'è nessuno, solo lui. Tutto è ancora chiuso. L'album che ascoltava ha ancora qualche brano da finire. Aspetta e pensa. Pensa a cose che non preoccupano nessun sedicenne escluso lui. "Strano". Lo definiscono così. Forse alcuni pensano che sia divertente, ma non lo è. Non è affatto divertente, per una persona, ritrovarsi ad avere una linea di pensiero differente. O meglio, non è affatto divertente per gli altri. Lui adorava quel suo metodo di pensiero, quel... "qualcosa" che gli permetteva di trovare soluzioni impensate. Amava tutto ciò che era diverso o speciale. Amava la diversità del suo pensiero. Amava la specialità del suo nome. Amava non essere "uno dei tanti".
Si voltò. Senza accorgersene, si era ritrovato seduto sulle scale, mentre la scuola apriva e, pian piano, tutto si affollava. Poi vide lei. Seduta lungo il muro, alle sue spalle. I capelli neri, liscissimi, l'aria triste, gli abiti scuri, come lui. Per un attimo incontrò il suo sguardo di tenebra. Chissà chi era. La vedeva sempre. Era lì, la mattina e all'uscita. Era sempre lì. Si gira di nuovo. I suoi sogni si spezzano, e si torna alla dura, noiosa realtà. Odiava la realtà. E' arrivato un suo compagno. Lo saluta con un cenno, schernisce un po', lui non se ne cura. C'è troppa gente lì fuori. Davvero, troppa gente. Si alza, mentre il suo compagno si siede e fa per accendersi una sigaretta. « Salgo, è freddo. » Quello dice qualcosa, ma lui non lo sente. Tanto non era di sicuro nulla di interessante. Sale le scale, ascoltando le ultime note delle prossime cinque ore. Odia la scuola. Entra in classe, è stanco, annoiato, assonnato, e le cose peggioreranno. Ottimo. Ma infondo oggi ci sono solo cinque ore. Guarda l'orario. Ops, sei. Allegria.
Si siede, scagliando lo zaino a terra. Sbuffa, guarda il soffitto. Odia quello che fa. E' in gabbia. Al punto in cui è non può tornare indietro, non può cambiare, non ha scelta. Deve proseguire per quella strada che detesta. Deve guardare ogni giorno gente che non gli piace, parlarci, fingere di stare bene. Odia tutto questo. Odia tutto questo. E non sa con chi prendersela. Con Dio? Troppo facile. Col mondo? Troppo...emo? Prenditela con chi ti capita a tiro. In classe è acido, sta da solo, non parla se non gli si fanno domande. Fa solo due cose: scrive, disegna, scrive, disegna, ossessivamente, ovunque gli capiti.
Lo sentiva. C'era qualcosa dentro di lui che lì non avrebbe mai potuto concretizzare. Qualcosa che non si può descrivere a parole, ma che si infuria se ingabbiato e si perde se lasciato libero. Il controllo, l'unica soluzione. Ma quello era il mondo reale. Era quello schifo di mondo reale dove lasciarsi sfuggire una riflessione come questa ti bollava come un individuo di "un certo tipo". Risale il compagno di prima. « Che fai, scappi quando arrivo? » Vuole solo scherzare. Ma non è proprio giornata. « Che fai, arrivi quando scappo? » Un bel sorriso acido, e il compagno lascia lì lo zaino dopo aver infierito con qualche altra battuta. Basta, basta, non parlare.
Passano cinque ore, una noia mortale. Davvero, si potrebbe morire, quando si arriva all'ultima, la sesta, soporifera ora di storia dell'arte. L'ora in cui "il momento in cui chiudi gli occhi potrebbe essere quello in cui non li riaprirai mai più". Ed ecco l'allarme anti-incendio. Un'esercitazione anti-incendio alla sesta ora? Ottima idea, contando che mancavano ormai pochi minuti. Non sarebbe di certo tornato lì dentro. Escono tutti, nel caos, lui si allontana. Se ne va dove non c'è nessuno, a quell'ora sono usciti tutti. Poi, seduta dietro un albero, la vede. Nera come la notte che lo spaventa tanto. Proprio perchè la teme, le si avvicina. Ha le cuffie, non lo sente. All'inizio la sua voce è un sussurro. Poi si fa chiara, e melodiosa. Lui rimane lì, a guardarla per qualche attimo. Sembra ipnotizzato.

« Where have all the feelings gone?
Why is the deadliest sin - to love as I loved you? »
« ...now unblessed, homesick in time,
soon to be freed from care, from human pain. »



Lei si gira, lo guarda negli occhi con uno sguardo che non è di questo mondo. L'espressione a metà tra irritazione e stupore. Lui la guarda, sorride un poco. Ama quella canzone. Lei lo fissa con sospetto. « ...saresti? » Fredda, distaccata, sembra odiare quel mondo. Come lui. « Uno che non ama le prove di evacuazione. » Lo sguardo si fa curioso, in qualche maniera ha mosso il suo interesse. « E che ama quella canzone. » E' solo l'inizio. L'inizio di qualcosa.

Ti ricordi? Ti prego, dimmi che ti ricordi.


Erano soli. La scuola non era più un problema. Nulla lo era più, finchè lui aveva lei e viceversa. Nulla esisteva, all'infuori dell'esistenza dell'altro. Un'altra giornata passata sdraiati sulla spiaggia deserta, con la sabbia gelata di quelle mattine d'autunno, l'odore salmastro, il rumore del mare che infuria. Guardano ciò che c'è sopra. Le nuvole, il cielo vuoto. Sentono il vento che li attraversa, quasi fossero uno. E, di nuovo, è notte. Non c'è nessuno, nel mondo, che si interessi di lui. Nessuno, tranne quello spirito nero così affine che era la ragazza che aveva di fianco. Non parlavano, ed erano stati lì tutto il giorno. Non avevano bisogno d'altro. Poi lei voltò il viso, distogliendo lo sguardo dal cielo, e rivolgendosi a lui. « Tu sei mio. Ti ucciderei se ti allontanassi da me. » E' la prova che sono come uno specchio di fronte all'altro: si riflettono uno nell'altro, all'infinito. La sua voce fredda è seria: davvero l'avrebbe ucciso. D'altronde, non ha che lui. E' sola, non ha altro.
« Io farei lo stesso. » Non sorride, è serio. Se mai lei lo lasciasse, la ucciderebbe. Lei era sua. E sua soltanto. Nessuno avrebbe potuto sottrargliela. Nessuno. E lei sente lo stesso. Ognuno era padrone, o meglio, possessore dell'altro. A lui, non era mai successo nulla di simile: di sentire il suo cuore esplodere, per gli sguardi di lei. Non si era mai avvicinato tanto alla morte quanto con lei. E mai, allo stesso tempo, era mai stato tanto vicino alla vita. Era qualcosa di indescrivibile. Definire con parole ciò che i due sentivano verso l'altro è qualcosa che finirebbe soltanto per "distruggere" il vero significato di quel sentimento.
I due si avvicinano. Muore e rinasce centinaia di volte, nel vedere il visto di lei così vicino al suo e... il resto, è Silenzio.

Fu dopo, che venne il peggio. Gli esseri umani sono estremamente fragili. Come specchi. E alcuni si rompono prima di altri. Quello di lei era stato spezzato in fretta. Chi o cosa fosse la causa, lui passo molto tempo a domandarselo. Ora non voleva più pensare. Non poteva più farlo, il suo specchio aveva smesso di riflettere quello di lei. Ora, non rifletteva nient'altro che cocci rotti. Non c'era più nulla. Doveva solo fuggire, fuggire ancora, fuggire più lontano, senza mai fermarsi. Corri per un momento, corri per sempre.





Basta... Non voglio più ricordare.


.nOw.

08.12 [Stazione di una Piccola Cittadina; Germania]



Da quanto stava correndo? Un sacco di tempo, ormai. Era arrivato da solo fin lì, in Germania. Aveva venduto tutto, tutto quello che aveva, per comprare le ali che gli avevano permesso di arrivare fino a lì. Non aveva più documenti, nè vita. Nessuno lo conosceva, era come se fosse invisibile. Come se fosse morto. Ed era così che viveva, come un morto. La vita gli era stata strappata dalle viscere con una tale violenza, che mai e poi mai avrebbe vissuto di nuovo. Il pesante cappotto nero lo copriva totalmente. Era freddo, freddissimo. Ma il gelo ormai non lo trafiggeva più. Nemmeno la fredda lama di un coltello avrebbe mai potuto trafiggerlo. Nulla, c'era solo lui ed il resto. Nessun giudizio. Nessuna competizione. Era solo, e lo erano gli altri.
La voce all'altoparlante disse qualcosa in un tedesco incomprensibile. Guardò l'orario, il suo treno stava arrivando. Non sapeva nemmeno dove sarebbe sceso. Non voleva saperlo. Tanto dopo avrebbe preso un'altro treno, e poi un'altro, e poi ancora, fino alla fine. E quando fossero finiti i soldi, avrebbe fatto l'autostop, o sarebbe andato a piedi. Fatto stava che non si sarebbe fermato mai più. Mai più.
Salì sul treno, prese un posto isolato, e si sedette appoggiando la testa al finestrino che vibrava. Lo sguardo perso nel vuoto, il sorriso malinconico. Non si sarebbe mai più fermato, non poteva. Doveva andare avanti. Cercare.
Il treno si mosse, prima lento, poi sempre più veloce. Aveva perso tutto. Era rimasto solo lui, ed il mondo. Non un motivo per vivere, per continuare a viaggiare. E allora doveva correre, con la sofferenza alle spalle, per dimenticare.

Dei passi. Stacca la testa dal finestrino, qualcuno si siede di fronte a lui. E' una ragazza: gli occhi castani, quasi dorati, i capelli castani lunghi fino alle spalle e l'aria un poco trasandata. Come anche lui su quel treno, d'altronde. Lo squadra, incuriosita. Lui allora si gira, e le rivolge lo stesso sguardo. Lei gli rivolge la parola, ha trovato in quel ragazzo qualcosa di familiare. « Ma sei italiano? » La sua voce è calda, bassa. Lui aspetta un po' prima di rispondere. « Lo ero. » Lei si sporge un poco in avanti dal suo sedile, lo guarda negli occhi, con volto ironico. « Lo eri? Perchè, adesso cosa sei? » Niente. « Niente. » La risposta è vaga, il tono triste, come i suoi stanchi occhi chiari. Il discorso è finito.
Ma lei non scende dal treno, finchè lui non si muove. Lo fissa, lo fissa ancora. Lui non le rivolge nemmeno lo sguardo. I suoi occhi sono morti, con lui.
Altri passi. Il controllore. Alto, con grandi baffi bianchi e un'aria truce. Gli parla in tedesco, lei risponde in inglese, dicendo di non capire. E' brava, in inglese. Lui, allora, riformula la domanda, in un'altra lingua. Lei cerca nelle tasche, nello zaino. Pare non trovare il biglietto. Il controllore fa cenno di sbrigarsi. Lei risponde che non riesce a trovarlo. L'uomo pare adirato, l'afferra per un braccio, facendo per alzarla, dicendole qualcosa in tedesco. Lui, allora, tira fuori il proprio biglietto, porgendolo alla ragazza. Dice al controllore che sono insieme, che lui ha il suo biglietto. L'uomo, allora ne chiede un secondo. Lui si guarda intorno, poi, improvvisamente, il treno inizia a frenare: lui l'afferra per mano, e corre, verso la più vicina porta aperta, e si allontana il più in fretta possibile.
Il controllore impreca, grida qualcosa in tedesco. I due attraversano un bar, e sono fuori dalla stazione, poi, rapidissimi, entrano in un piccolo parco, e si fermano tra gli alberi. Sono entrambi sfiniti, per la lunga corsa. Lui si siede, respirando a fondo. Anche lei ha il fiato corto. « Perchè l'hai fatto? » domanda. « Mi andava. E comunque, eri senza biglietto? » anche lui chiede, incuriosito. Incuriosito...? « No, era qui, da qualche parte... » Fa per cercarlo, poi lo vede: è nel cappuccio del ragazzo. « Eccolo! Dev'essermi caduto quando mi sono seduta... » Lo prende con fare un po' brusco, e lo mette nella borsa. Poi si china in avanti, cercando lo sguardo del giovane dai capelli biondi. « Io sono ---, piacere! »
Gli tende la mano. Lui la guarda, un po' stranito poi avvicina la propria e stringe la mano della ragazza, con un poco di diffidenza. Non dice il suo nome, ha venduto anche quello. Non capisce perchè lei debba essere così "solidale", non capisce perchè gli si deve avvicinare così. Lui è solo, ormai. Legarsi ancora alla vita non avrebbe senso.
Lei gli si siede accanto, e guarda il cielo. « Anche tu stai... "fuggendo"? » Lui è stupito, si gira di scatto. Lo aveva capito, in così poco tempo? E' sensibile... Annuisce con la testa, rispondendo triste. « Io ho perso mio fratello. Non avevo nessun'altro. » Lo sguardo di lei si fa identico al suo. Si perde nel vuoto, diventa triste. Però, lei ha qualcosa di diverso. Sembra "rinata". Sembra avere nuova speranza. Sembra viva.
Si rivolge allora al ragazzo, con espressione un po' stizzita. « Ma sei allergico al sorriso? Sforzati, dai! Tra l'altro non mi hai nemmeno detto il tuo nome. » Lui sorride un poco, ed il volto della ragazza si fa soddisfatto. Poi le parla. « Non ce l'ho più, un nome. L'ho dato via. » Il sorriso si spegne di nuovo, lei allora, continua. « E come diavolo lo "dai via" un nome? Comunque dovrò pur chiamarti in qualche modo. Scegliti un nome adesso, se non vuoi che scelga io un soprannome ridicolo. » Sembra abbastanza irritata dalla tristezza del ragazzo, ma non si arrabbia con lui. Lo compatisce, anche lei era così fino a qualche anno prima. « Scegliermi... un nome? » Trova la prospettiva abbastanza stimolante, anche se lì per lì non capisce cosa significhi. Si porta la mano sinistra al mento, con aria pensosa.
Pensa. Non credeva che avrebbe mai più avuto bisogno di un nome. Adesso, si ritrova a pensarne uno, invece. Qualcosa che unisca ciò che è stato con ciò che sarà. Qualcosa di unico, che lo distingua da qualunque altra persona. La guarda negli occhi, e sul suo volto si accende un sorriso vivo, che per una volta non cela una malinconia muta dietro di se. Un vero sorriso, forse un po' folle. Grazie. Ora sa chi è. Sa cosa deve fare. Ora è.

« "Caes". »


 
Top
view post Posted on 12/11/2007, 22:48
Avatar

--------------------
~

Group:
Member
Posts:
3,112

Status:


CITAZIONE
Per chi fosse interessato e si ritrovasse a leggere questa scena, preciso che all'interno vi ho giocato non solo il mio personaggio dell'AdD, ma anche quello dell'Asgra. Quest'ultimo è il "protagonista".
Mi scuso nel caso in cui vi siano errori, ma non ho trovato il tempo di rileggere =P

«In fondo i mondi non sono altro che vasi comunicanti. Non si sa mai quando la goccia di uno cola nell'altro...»


Avete mai avuto un fratello?
Conoscete quella familiare sensazione di competitività, "odio", "amore", e gelosia che porta ogni figlio a litigare con l'altro, per qualsiasi stupidaggine succeda in casa, o anche solo per sentirsi un poco più superiori a qualcun altro quando se ne ha bisogno?
Peggio ancora, avete mai provato ad avere un gemello?
Una persona con la quale gli altri vi confondono, un'entità che disturba la vostra esistenza, minando inconsapevolmente la preservazione del vostro stesso ego.
Si sa. Nel momento in cui uno dei due gemelli si rende conto di questa situazione, tenta di allontanarsi il più possibile dall'altro, finendo col trasformarsi in una sua figura complementare. Diametralmente opposta.
Non è sempre detto, però, che quest'ultimo accetti sempre così facilmente tale cambiamento, dando inizio ad un interminabile, almeno in apparenza, periodo di contrasti e scontri, che spesso si risolvono nei modi più insensati.

[...]


Il ronzio del computer era divenuto da tempo un sottofondo musicale innaturalmente consueto in quella stanza.
La nota prolungata di un basso accompagnata dal pesante battere delle dita lungo la tastiera.
Come accompagnamento si poteva godere dello sbattere lento delle porte e del cigolare della finestra aperta, così da far passare tant'aria quanta bastava a respirare.
La madre al piano di sotto, poi, intonava di quei canti da far letteralmente impazzire chiunque, ogni volta che lo vedeva rientrare in casa a quell'ora e fiondarsi sul suo personal computer senza degnare di un saluto nessuno.
Non che questa "soave" melodia riuscisse a toccarlo.
Era una musica tanto ripetuta da scorrere ormai sulla sua pelle come inesistente, guardandosi bene dal distoglierlo dai suoi pensieri.
Ma se tali note non lo sfioravano, non si poteva certo dire che fossero molte altre cose a farlo. Non certo perché fosse un ragazzo complessato, o con tendenze suicide... la questione era molto più semplice.
Tutto era incredibilmente noioso.
Ogni cosa. Dalla scuola, che frequentava regolarmente solo per poter bastonare moralmente tutti quei ragazzetti che lo seguivano per raccogliere gli strascichi della sua superbia, fino alla sua ragazza, verso la quale, dopo i primi divertenti mesi combattuti nel difficile tentativo di conquistarla, stava perdendo ogni interesse.
E quel momento non differiva dagli altri. Davanti a lui una pagina di Wikipedia aperta; le sue dita che spingevano con flemmatica lentezza sulla rotella del mouse, accompagnate dall'annoiato sospendersi dello sguardo su ogni riga.
Sorrise mefitico constatando che i suoi occhi avevano appena incontrato ciò che cercava.
Il giorno dopo lui e la sua classe sarebbero andati in laboratorio a studiare gli effetti e i composti che potevano risultare dall'unione di differenti composti. Il Sodio l'avrebbe quindi trovato lì, pronto ad aspettarlo; doveva solo procurarsi una piccola bottiglia di plastica, preparare un divisorio e riempirla d'acqua e piombini...
Mentre la sua mente fantasticava sui segni che la piccola esplosione avrebbe lasciato alla pelle del professore, la sua bocca s'aprì in un fanatico sorriso, e'l suo sguardo si colmò d'evidente desiderio.
Sperava solo in una sospensione meno lunga, così da poter tornare a condurre i suoi perosnali "Esperimenti scolastici" il prima possibile.
Ma se la sua imposizione di vanagloria era una delle poche cose che riusciva a risvegliare il suo animo, un'altra di queste bussò in quello stesso istante alla porta della stanza, per poi socchiudere l'uscio e fare capolino, anche se solo sporgendo il viso.
«E' permesso?» Chiese il giovane appena comparso, con tono innaturalmente calmo e gentile, prima di entrare nella stanza del tutto.
Il primo volse lo sguardo verso di lui quanto bastava per identificarlo, e in un solo attimo tutta la gioia ch'aveva colmato la sua espressione sino a quel momento si spense, come se qualcuno avesse spinto su un interruttore posto sulla sua schiena.
Nervoso e indispettito fece segno al secondo di entrare, schioccando le labbra. Il suo viso era divenuto l'impronta dell'odio.
Tuttavia l'altro non si fece problemi ad entrare e, degnando d'occhiate curiose i poster delle diverse band che adornavano le pareti della stanza, prese compostamente posto sul divano, sedendosi e rassettandosi la camicia.
Odiava suo fratello quando si comportava così.
Sempre pronto a intrufolarsi ossessivamente nella sua vita, come nemmeno i suoi "amici" avevano mai trovato il coraggio di fare. Per fare chissà cosa, poi.
Lo squadrò per qualche secondo, cercando di confermare a se stesso ch'era solo il sangue ad accumunarli.
Lui i capelli neri come la pece; l'altro innaturalmente candidi, per la sua età.
Lui con croci rovesciate al collo e tenuta rigorosamente scura; l'altro perfetto, con indosso una candida camicia stirata e un paio di jeans altrettanto chiari.
Lui col disgusto dipinto sul viso; l'altro nulla più che un indecifrabile sorriso gioioso.
Più tranquillo, decise che il fratello aveva lasciato diffondere per troppo tempo la sua nuova colonia nell'aere, e schioccò le labbra, squadrandolo duro.
«Posso sapere cosa cazzo vuoi?» Chiese con tono flemmatico, scandendo ogni singola sillaba così da intimorire il più possibile il gemello che, però, non fece altro che accentuare il suo sorriso gentile prima di rispondergli.
«Pensavo solo che un po' di compagnia ti avrebbe fatto bene. Ora ne sono certo.» Ma la sua espressione smagliante si scontrò duramente contro quella del primo, infrangendosi come quando un vetro cade in terra. «...Tuttavia noto con dispiacere di non essere ben accolto. C'è qualcosa che posso fare in merito?»
Il nero sorrise. E non fu un bel sorriso.
«Dovevi pensarci prima di venire al mondo, angioletto
Ecco.
L'aveva detto.
"Angioletto". Il soprannome ridicolo che loro madre aveva assegnato al bianco all'età di sette anni, e che da allora non era più riuscito a scrollarsi di dosso.
Per il primo era sempre una goduria poterne abusare gratuitamente. Non sarebbe stato strano sentire definirlo come uno dei piccoli piaceri che impreziosivano quella sua tanto noiosa esistenza.
Tuttavia anche quella gioia durò ben poco, crollando precipitosamente quando il suo sguardo incontrò nuovamente quello del fratello, che non pareva per nulla turbato dalla sua precedente menzione e anzi, gli sorrideva ancora, forse più gentilmente di prima.
Accompagnato da una sommessa imprecazione, roteò gli occhi prima di rivolgersi nuovamente allo schermo, ignorando la calma imperturbabile del gemello.
Il silenzio durò solo pochi, interminabili, secondi. Nel frattempo il bianco s'era alzato dal divano, e gli s'era affiancato per studiare lo schermo con lui, e almeno comprendere un poco delle sue trame.
«Non credo sia...» «Zitto.»
Non si guardarono per un lungo istante, cessando persino di respirare.
«Ascolta, non credi che...» «Zitto
L'angelo si passò una mano nei capelli, sospirando. Si fece nuovamente eretto e guardò clemente il viso del fratello, congelato sul computer.
Alzò un indice e sorrise. Non era da escludere un suo insano piacere nel continuare a condurre quell'insensato comportamento, consapevole delle conseguenze.
«Secondo me...» «Cazzo! Ma devi sempre dire qualcosa?!?.» Un tonfo. Il mouse andò improvvisamente in pezzi, schiantandosi contro il pavimento. «Posso sapere che cosa non ti è chiaro della parola "Zitto"?!?.» La sua voce era divenuta il sibilo di un serpente pronto ad azzannare ogni cosa gli si ritrovasse a portata delle proprie zanne.
Dal suo canto, il bianco si diede in un nuovo sospiro esasperato, e si diresse verso la piccola televisione spenta, all'altro capo della stanza.
Con gesti quasi meccanici l'accese, per poi lasciar scivolare le dita sul pulsante dell'accensione della playstation lì accanto, sopra la quale s'accese una fievole luce verde.
Prese uno dei due Joypad, e l'altro lo lanciò al nero, che lo afferrò con una prontezza indicibile.
Sorridendogli, lasciò che le immagini del video iniziale di uno strano picchiaduro si susseguissero dietro di lui, schioccò le labbra e, calmo, si pronunziò nella richiesta con cui terminavano tutti i loro litigi. «Al meglio delle tre?»
L'altro attese, sollevando il viso in un'espressione di sdegno.
Odiava quel momento. Quando tutto finiva per l'esaurirsi in una semplice sfida ad un videogioco.
Eppure... neppure lui riusciva a farne a meno, e già le sue dita si stavano muovendo per selezionare un grosso Golem di Ferro come suo personaggio.
Stizzito, prese una sedia e l'avvicinò il più possibile alla televisione, riassumendo la sua espressione annoiata.
«Io il Cavaliere, tu l'Angelo. E mi raccomando... non osare proferir parola.»
Un sorriso, poi anche l'angioletto prese una sedia, impugnando il joypad con più calma, e lasciando che il cursore scivolasse su un altro Golem, più Candido, non dissimile da quelle unità Evangelion prodotte in massa nel film che concludeva la serie.
Qualche schermata di circostanza, e infine le parole che sancivano il termine di ogni loro scontro.

Ready???

FIGHT!
 
WWW //  Top
12 replies since 6/10/2007, 01:43   442 views
  Share