| Caes |
| | ~ Can You Imagine...? ]
Era seduto su una panchina della stazione, aspettando che arrivasse l'ennesimo treno. Da quanti mesi era in viaggio? Otto... Nove? Quasi un anno, insomma. Era lì, che attendeva, nei suoi abiti neri, un po' trasandati. Solo, l'espressione triste, fissava il terreno. L'altoparlante fa un'altro avviso in tedesco, capisce poco, ma gli orari dei treni sono fatti di numeri, fortunatamente. Aveva fame, ma non poteva mangiare. Aveva sete, ma non poteva bere. Si odiava. E stava ricominciando a pensare. Non faceva più nulla. Viaggiava, semplicemente. Non andava a scuola. Non lavorava. Si manteneva con quei pochi soldi guadagnati vendendo tutto ciò che non gli era più utile. E avrebbe continuato a "fuggire" finchè la sua vita non si fosse spenta. Anche a costo di morire, non si sarebbe fermato. Perchè se mai l'avesse fatto, ciò che l'attendeva era ben peggio della morte... ciò che lo attendeva era il Ricordo.
Le mie ferite non si rimarginano...
.bEfOrE.
03.16 [Città Imprecisata; Italia]
Caldo. Caldissimo. Nel suo letto un caldo soffocante, eppure i suoi piedi e le sue mani sono gelati, ed il suo sudore sembra gelido. Forse è malato, forse no. Non ha importanza. Ha dimenticato l'incubo che l'ha svegliato. L'unica cosa che sente è il ronzìo di una delle ultime zanzare dell'estate che vola vicino al suo orecchio, golosa di un sangue che il ragazzo non vuole cedergli. Si soffoca sotto le coperte. Non resiste, vuole dormire, non sopporta la notte. Non sopporta il buio, essere l'unico sveglio insieme a quegli insetti disgustosi. Impreca, sottovoce. « Basta, prenditi tutto il sangue che ti pare, stronza. » Vuole solo dormire. Si scopre completamente, fino alle gambe, ed il gelo sembra trafiggerlo. Ma almeno il ronzìo è cessato. Si riaddormenta, forse, un'ora dopo.
06.23
Dorme pochissimo, si sveglia, ha freddo. E' solo, in casa non 'è nessuno. Ancora non è sorto il sole, ma cercare di riaddormentarsi sarebbe inutile. Si alza, rimane seduto sul letto per una decina di minuti, la vista offuscata dai lunghi capelli biondi. Uccide Dio una cinquantina di volte, in mente, per non avergli fatto dono del "sogno", o, in parole povere, della capacità di dormire in santa pace. Guarda a terra, e vede un insetto morto, non si muove: la zanzara. Sorride, felice di aver contribuito all'avvelenamento/morte per indigestione di un essere vivente, e si alza più contento, pronto a rilanciarsi nella noiosa monotonia di tutti i giorni. In piedi, si trascina davanti allo specchio. Lo sguardo stanco, e gli occhi azzurri con un simpatico "bordo" nero, tipo panda. Maledetta notte. Prende, o meglio, pesca dall'armadio (aperto da circa una sessantina di giorni) i primi vestiti che trova. Ogni vestito è nero, quindi non fa alcuna differenza. Scende, beve un caffè e risale, cercando di dare un ordine a quei dannatissimi capelli lunghi. Prende quello che rimane del suo zaino e si prepara, come un soldato che va alla guerra, per la "scuola". Odiava quel posto quasi quanto casa sua. Ah, giusto, odiava un sacco di cose: la notte, casa sua, la scuola ed un altro elenco che ora sarebbe inutile portare avanti. Si mette con violenza le cuffie nelle orecchie, e accende il suo lettore, con qualcosa che possa svegliarlo. Fortunatamente c'è fin troppa musica-sveglia e non deve nemmeno scegliere il brano, che già si sveglia. La musica... Non odiava la musica. La musica è arte. Ed è una delle poche cose che lo aiuta a camminare durante quelle mattine. Cammina, è ancora presto. Il freddo lo congela, trema. Odia il freddo. Cammina ancora e, in una ventina di minuti, è davanti all'edificio. Non c'è nessuno, solo lui. Tutto è ancora chiuso. L'album che ascoltava ha ancora qualche brano da finire. Aspetta e pensa. Pensa a cose che non preoccupano nessun sedicenne escluso lui. "Strano". Lo definiscono così. Forse alcuni pensano che sia divertente, ma non lo è. Non è affatto divertente, per una persona, ritrovarsi ad avere una linea di pensiero differente. O meglio, non è affatto divertente per gli altri. Lui adorava quel suo metodo di pensiero, quel... "qualcosa" che gli permetteva di trovare soluzioni impensate. Amava tutto ciò che era diverso o speciale. Amava la diversità del suo pensiero. Amava la specialità del suo nome. Amava non essere "uno dei tanti". Si voltò. Senza accorgersene, si era ritrovato seduto sulle scale, mentre la scuola apriva e, pian piano, tutto si affollava. Poi vide lei. Seduta lungo il muro, alle sue spalle. I capelli neri, liscissimi, l'aria triste, gli abiti scuri, come lui. Per un attimo incontrò il suo sguardo di tenebra. Chissà chi era. La vedeva sempre. Era lì, la mattina e all'uscita. Era sempre lì. Si gira di nuovo. I suoi sogni si spezzano, e si torna alla dura, noiosa realtà. Odiava la realtà. E' arrivato un suo compagno. Lo saluta con un cenno, schernisce un po', lui non se ne cura. C'è troppa gente lì fuori. Davvero, troppa gente. Si alza, mentre il suo compagno si siede e fa per accendersi una sigaretta. « Salgo, è freddo. » Quello dice qualcosa, ma lui non lo sente. Tanto non era di sicuro nulla di interessante. Sale le scale, ascoltando le ultime note delle prossime cinque ore. Odia la scuola. Entra in classe, è stanco, annoiato, assonnato, e le cose peggioreranno. Ottimo. Ma infondo oggi ci sono solo cinque ore. Guarda l'orario. Ops, sei. Allegria. Si siede, scagliando lo zaino a terra. Sbuffa, guarda il soffitto. Odia quello che fa. E' in gabbia. Al punto in cui è non può tornare indietro, non può cambiare, non ha scelta. Deve proseguire per quella strada che detesta. Deve guardare ogni giorno gente che non gli piace, parlarci, fingere di stare bene. Odia tutto questo. Odia tutto questo. E non sa con chi prendersela. Con Dio? Troppo facile. Col mondo? Troppo...emo? Prenditela con chi ti capita a tiro. In classe è acido, sta da solo, non parla se non gli si fanno domande. Fa solo due cose: scrive, disegna, scrive, disegna, ossessivamente, ovunque gli capiti. Lo sentiva. C'era qualcosa dentro di lui che lì non avrebbe mai potuto concretizzare. Qualcosa che non si può descrivere a parole, ma che si infuria se ingabbiato e si perde se lasciato libero. Il controllo, l'unica soluzione. Ma quello era il mondo reale. Era quello schifo di mondo reale dove lasciarsi sfuggire una riflessione come questa ti bollava come un individuo di "un certo tipo". Risale il compagno di prima. « Che fai, scappi quando arrivo? » Vuole solo scherzare. Ma non è proprio giornata. « Che fai, arrivi quando scappo? » Un bel sorriso acido, e il compagno lascia lì lo zaino dopo aver infierito con qualche altra battuta. Basta, basta, non parlare. Passano cinque ore, una noia mortale. Davvero, si potrebbe morire, quando si arriva all'ultima, la sesta, soporifera ora di storia dell'arte. L'ora in cui "il momento in cui chiudi gli occhi potrebbe essere quello in cui non li riaprirai mai più". Ed ecco l'allarme anti-incendio. Un'esercitazione anti-incendio alla sesta ora? Ottima idea, contando che mancavano ormai pochi minuti. Non sarebbe di certo tornato lì dentro. Escono tutti, nel caos, lui si allontana. Se ne va dove non c'è nessuno, a quell'ora sono usciti tutti. Poi, seduta dietro un albero, la vede. Nera come la notte che lo spaventa tanto. Proprio perchè la teme, le si avvicina. Ha le cuffie, non lo sente. All'inizio la sua voce è un sussurro. Poi si fa chiara, e melodiosa. Lui rimane lì, a guardarla per qualche attimo. Sembra ipnotizzato.
« Where have all the feelings gone? Why is the deadliest sin - to love as I loved you? » « ...now unblessed, homesick in time, soon to be freed from care, from human pain. »
Lei si gira, lo guarda negli occhi con uno sguardo che non è di questo mondo. L'espressione a metà tra irritazione e stupore. Lui la guarda, sorride un poco. Ama quella canzone. Lei lo fissa con sospetto. « ...saresti? » Fredda, distaccata, sembra odiare quel mondo. Come lui. « Uno che non ama le prove di evacuazione. » Lo sguardo si fa curioso, in qualche maniera ha mosso il suo interesse. « E che ama quella canzone. » E' solo l'inizio. L'inizio di qualcosa.
Ti ricordi? Ti prego, dimmi che ti ricordi. Erano soli. La scuola non era più un problema. Nulla lo era più, finchè lui aveva lei e viceversa. Nulla esisteva, all'infuori dell'esistenza dell'altro. Un'altra giornata passata sdraiati sulla spiaggia deserta, con la sabbia gelata di quelle mattine d'autunno, l'odore salmastro, il rumore del mare che infuria. Guardano ciò che c'è sopra. Le nuvole, il cielo vuoto. Sentono il vento che li attraversa, quasi fossero uno. E, di nuovo, è notte. Non c'è nessuno, nel mondo, che si interessi di lui. Nessuno, tranne quello spirito nero così affine che era la ragazza che aveva di fianco. Non parlavano, ed erano stati lì tutto il giorno. Non avevano bisogno d'altro. Poi lei voltò il viso, distogliendo lo sguardo dal cielo, e rivolgendosi a lui. « Tu sei mio. Ti ucciderei se ti allontanassi da me. » E' la prova che sono come uno specchio di fronte all'altro: si riflettono uno nell'altro, all'infinito. La sua voce fredda è seria: davvero l'avrebbe ucciso. D'altronde, non ha che lui. E' sola, non ha altro. « Io farei lo stesso. » Non sorride, è serio. Se mai lei lo lasciasse, la ucciderebbe. Lei era sua. E sua soltanto. Nessuno avrebbe potuto sottrargliela. Nessuno. E lei sente lo stesso. Ognuno era padrone, o meglio, possessore dell'altro. A lui, non era mai successo nulla di simile: di sentire il suo cuore esplodere, per gli sguardi di lei. Non si era mai avvicinato tanto alla morte quanto con lei. E mai, allo stesso tempo, era mai stato tanto vicino alla vita. Era qualcosa di indescrivibile. Definire con parole ciò che i due sentivano verso l'altro è qualcosa che finirebbe soltanto per "distruggere" il vero significato di quel sentimento. I due si avvicinano. Muore e rinasce centinaia di volte, nel vedere il visto di lei così vicino al suo e... il resto, è Silenzio.
Fu dopo, che venne il peggio. Gli esseri umani sono estremamente fragili. Come specchi. E alcuni si rompono prima di altri. Quello di lei era stato spezzato in fretta. Chi o cosa fosse la causa, lui passo molto tempo a domandarselo. Ora non voleva più pensare. Non poteva più farlo, il suo specchio aveva smesso di riflettere quello di lei. Ora, non rifletteva nient'altro che cocci rotti. Non c'era più nulla. Doveva solo fuggire, fuggire ancora, fuggire più lontano, senza mai fermarsi. Corri per un momento, corri per sempre.
Basta... Non voglio più ricordare. .nOw.
08.12 [Stazione di una Piccola Cittadina; Germania]
Da quanto stava correndo? Un sacco di tempo, ormai. Era arrivato da solo fin lì, in Germania. Aveva venduto tutto, tutto quello che aveva, per comprare le ali che gli avevano permesso di arrivare fino a lì. Non aveva più documenti, nè vita. Nessuno lo conosceva, era come se fosse invisibile. Come se fosse morto. Ed era così che viveva, come un morto. La vita gli era stata strappata dalle viscere con una tale violenza, che mai e poi mai avrebbe vissuto di nuovo. Il pesante cappotto nero lo copriva totalmente. Era freddo, freddissimo. Ma il gelo ormai non lo trafiggeva più. Nemmeno la fredda lama di un coltello avrebbe mai potuto trafiggerlo. Nulla, c'era solo lui ed il resto. Nessun giudizio. Nessuna competizione. Era solo, e lo erano gli altri. La voce all'altoparlante disse qualcosa in un tedesco incomprensibile. Guardò l'orario, il suo treno stava arrivando. Non sapeva nemmeno dove sarebbe sceso. Non voleva saperlo. Tanto dopo avrebbe preso un'altro treno, e poi un'altro, e poi ancora, fino alla fine. E quando fossero finiti i soldi, avrebbe fatto l'autostop, o sarebbe andato a piedi. Fatto stava che non si sarebbe fermato mai più. Mai più. Salì sul treno, prese un posto isolato, e si sedette appoggiando la testa al finestrino che vibrava. Lo sguardo perso nel vuoto, il sorriso malinconico. Non si sarebbe mai più fermato, non poteva. Doveva andare avanti. Cercare. Il treno si mosse, prima lento, poi sempre più veloce. Aveva perso tutto. Era rimasto solo lui, ed il mondo. Non un motivo per vivere, per continuare a viaggiare. E allora doveva correre, con la sofferenza alle spalle, per dimenticare.
Dei passi. Stacca la testa dal finestrino, qualcuno si siede di fronte a lui. E' una ragazza: gli occhi castani, quasi dorati, i capelli castani lunghi fino alle spalle e l'aria un poco trasandata. Come anche lui su quel treno, d'altronde. Lo squadra, incuriosita. Lui allora si gira, e le rivolge lo stesso sguardo. Lei gli rivolge la parola, ha trovato in quel ragazzo qualcosa di familiare. « Ma sei italiano? » La sua voce è calda, bassa. Lui aspetta un po' prima di rispondere. « Lo ero. » Lei si sporge un poco in avanti dal suo sedile, lo guarda negli occhi, con volto ironico. « Lo eri? Perchè, adesso cosa sei? » Niente. « Niente. » La risposta è vaga, il tono triste, come i suoi stanchi occhi chiari. Il discorso è finito. Ma lei non scende dal treno, finchè lui non si muove. Lo fissa, lo fissa ancora. Lui non le rivolge nemmeno lo sguardo. I suoi occhi sono morti, con lui. Altri passi. Il controllore. Alto, con grandi baffi bianchi e un'aria truce. Gli parla in tedesco, lei risponde in inglese, dicendo di non capire. E' brava, in inglese. Lui, allora, riformula la domanda, in un'altra lingua. Lei cerca nelle tasche, nello zaino. Pare non trovare il biglietto. Il controllore fa cenno di sbrigarsi. Lei risponde che non riesce a trovarlo. L'uomo pare adirato, l'afferra per un braccio, facendo per alzarla, dicendole qualcosa in tedesco. Lui, allora, tira fuori il proprio biglietto, porgendolo alla ragazza. Dice al controllore che sono insieme, che lui ha il suo biglietto. L'uomo, allora ne chiede un secondo. Lui si guarda intorno, poi, improvvisamente, il treno inizia a frenare: lui l'afferra per mano, e corre, verso la più vicina porta aperta, e si allontana il più in fretta possibile. Il controllore impreca, grida qualcosa in tedesco. I due attraversano un bar, e sono fuori dalla stazione, poi, rapidissimi, entrano in un piccolo parco, e si fermano tra gli alberi. Sono entrambi sfiniti, per la lunga corsa. Lui si siede, respirando a fondo. Anche lei ha il fiato corto. « Perchè l'hai fatto? » domanda. « Mi andava. E comunque, eri senza biglietto? » anche lui chiede, incuriosito. Incuriosito...? « No, era qui, da qualche parte... » Fa per cercarlo, poi lo vede: è nel cappuccio del ragazzo. « Eccolo! Dev'essermi caduto quando mi sono seduta... » Lo prende con fare un po' brusco, e lo mette nella borsa. Poi si china in avanti, cercando lo sguardo del giovane dai capelli biondi. « Io sono ---, piacere! » Gli tende la mano. Lui la guarda, un po' stranito poi avvicina la propria e stringe la mano della ragazza, con un poco di diffidenza. Non dice il suo nome, ha venduto anche quello. Non capisce perchè lei debba essere così "solidale", non capisce perchè gli si deve avvicinare così. Lui è solo, ormai. Legarsi ancora alla vita non avrebbe senso. Lei gli si siede accanto, e guarda il cielo. « Anche tu stai... "fuggendo"? » Lui è stupito, si gira di scatto. Lo aveva capito, in così poco tempo? E' sensibile... Annuisce con la testa, rispondendo triste. « Io ho perso mio fratello. Non avevo nessun'altro. » Lo sguardo di lei si fa identico al suo. Si perde nel vuoto, diventa triste. Però, lei ha qualcosa di diverso. Sembra "rinata". Sembra avere nuova speranza. Sembra viva. Si rivolge allora al ragazzo, con espressione un po' stizzita. « Ma sei allergico al sorriso? Sforzati, dai! Tra l'altro non mi hai nemmeno detto il tuo nome. » Lui sorride un poco, ed il volto della ragazza si fa soddisfatto. Poi le parla. « Non ce l'ho più, un nome. L'ho dato via. » Il sorriso si spegne di nuovo, lei allora, continua. « E come diavolo lo "dai via" un nome? Comunque dovrò pur chiamarti in qualche modo. Scegliti un nome adesso, se non vuoi che scelga io un soprannome ridicolo. » Sembra abbastanza irritata dalla tristezza del ragazzo, ma non si arrabbia con lui. Lo compatisce, anche lei era così fino a qualche anno prima. « Scegliermi... un nome? » Trova la prospettiva abbastanza stimolante, anche se lì per lì non capisce cosa significhi. Si porta la mano sinistra al mento, con aria pensosa. Pensa. Non credeva che avrebbe mai più avuto bisogno di un nome. Adesso, si ritrova a pensarne uno, invece. Qualcosa che unisca ciò che è stato con ciò che sarà. Qualcosa di unico, che lo distingua da qualunque altra persona. La guarda negli occhi, e sul suo volto si accende un sorriso vivo, che per una volta non cela una malinconia muta dietro di se. Un vero sorriso, forse un po' folle. Grazie. Ora sa chi è. Sa cosa deve fare. Ora è. « "Caes". »
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